L’Istat ha comunicato i dati sul mercato del lavoro del terzo trimestre dell’anno: emerge una crescita congiunturale del numero di occupati (circa 79.000 unità) “soltanto nella componente a tempo determinato”. I lavoratori a termine risultano quindi 2.784.000, il dato più alto dall’inizio delle rilevazioni su questa categoria, cioè dalla fine del 1992. Complessivamente, il tasso di disoccupazione si è attestato all’11,2%, lo stesso livello del trimestre precedente. L’Eurostat ha invece fatto sapere che, sempre nel terzo trimestre dell’anno, il Pil di Ue ed Eurozona è cresciuto dello 0,6% a livello congiunturale e del 2,6% a livello tendenziale, con l’Italia in coda tra i paesi membri (+0,4% e +1,7%). «La situazione è tre volte preoccupante», è il commento di Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.
Perché professore?
In primo luogo perché l’Istat ci dice che l’aumento congiunturale dell’occupazione è basato su contratti a termine e questo non è un segnale di stabilità sul futuro dei redditi e dell’occupazione stessa…
Non potrebbe essere che non si assume a tempo indeterminato in attesa degli sgravi dell’anno prossimo?
Sì potrebbe essere, ma nel frattempo il tasso di disoccupazione resta inchiodato all’11%. E questa è la seconda fonte di preoccupazione, perché la domanda che mi pongo di fronte a questa situazione è: quanti anni ci metteremo per ritornare più o meno al 6%, il livello pre-crisi? La crisi è ormai è diventata strutturale e sta provocando danni pesanti al tessuto sociale. Ed è qui la terza preoccupazione, come si è visto nei dati Istat usciti mercoledì su condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie.
Cosa dicono di così preoccupante questi dati?
Dicono che, cito testualmente, “a livello europeo, nel 2016 l’indicatore sintetico di rischio di povertà o esclusione sociale diminuisce da 23,8% a 23,5%, ma sale rispetto al 2015 per Romania, Lussemburgo e Italia. Il valore italiano si mantiene inferiore a quelli di Bulgaria (40,4%), Romania (38,8%), Grecia (35,6%), Lettonia (30,9%), ma è molto superiore a quelli registrati in Francia (18,2%), Germania (19,7%) e Gran Bretagna (22,2%) e di poco più alto rispetto a quello della Spagna (27,9%)”. Sono dati del 2016, è vero, ma non possono non destare preoccupazione.
Che situazione complessiva vede quindi?
Complessivamente questi dati sembrano come un Triangolo delle Bermude in cui siamo ancora dentro, perché non abbiamo un dato che ci dica in modo robusto che il vento è cambiato. Abbiamo un aumento delle distanze all’interno del Paese tra chi in qualche modo prosegue su un binario tracciato e chi per qualunque motivo (per esempio, è giovane oppure la sua azienda ha chiuso) non riesce a inserirsi nel mercato del lavoro: la forbice della disuguaglianza aumenta.
In più i dati Eurostat vedono l’Italia ancora tra gli ultimi paesi per crescita di Pil. Un po’ difficile parlare di uscita dalla crisi…
I dati Eurostat chiariscono che beneficiamo del traino degli altri paesi. Siamo quasi un punto sotto la media (+1,7% contro +2,6%). Io leggo sui giornali autorevoli colleghi affermare che le cose vanno per il meglio, ma a essere generosi questo è solo un trickle-down: gli altri corrono il doppio di noi e qualcosa arriva anche a noi, ma questa non è una crescita endogena vera. Dato che veniamo dagli abissi, per tornare a respirare dovremmo salire più degli altri, non di meno. Se per un qualche motivo gli altri rallentassero, noi rischieremmo di inchiodarci o di tornare indietro. Si sta celebrando un +1,7%, quando il Portogallo cresce del 2,5% e la Spagna del 3,1%. C’è da preoccuparsi.
(Lorenzo Torrisi)