Borse in spolvero ieri, galvanizzate da due notizie: l’accordo fra Ue e Gran Bretagna sul Brexit e le modifiche ai criteri bancari di Basilea III. Piazza Affari, all’ora di pranzo, era maglia rosa in Europa, trascinata proprio dal comparto bancario. Fin qui, la cronaca che sentirete e leggerete ovunque. Ora vediamo la realtà. E partiamo da quanto si può vedere nel grafico più in basso: se tutto è così bello e risolto, perché dopo l’euforia iniziale, la sterlina sul dollaro si è sgonfiata come un soufflé mal riuscito? Per due motivi, entrambi emersi dopo la conferenza stampa di Jean-Claude Juncker e Theresa May, volti segnati dalle occhiaie per la maratona notturna e ottimismo d’obbligo.
Primo, il capo negoziatore Ue, Michel Barnier, ha detto chiaro e tondo che non ci sono cifre sul conto che il Regno Unito dovrà pagare per la Brexit: «Non ho mai indicato cifre e non comincerò oggi». Di fatto, il Regno Unito contribuirà al bilancio 2019-2020 come se fosse ancora nell’Ue. Barnier ha detto che le cifre «balleranno e che non si può calcolare l’ammontare finale in questo momento»: e non stupisce, visto che siamo talmente in alto mare che quanto emerso nei giorni scorsi vede il conto finale variare dai 55 miliardi di euro paventati da indiscrezioni dei media, a fronte dei 20 miliardi originariamente offerti da Londra e ai 60 miliardi evocati a Bruxelles. Insomma, confusione. Secondo, quello 0,4% di calo della quotazione della sterlina è legato a un’altra dichiarazione, questa volta riferita a funzionari Ue sotto anonimato: «Non è realistico aspettarsi un accordo commerciale fra Ue e Regno Unito prima del marzo 2019». Quindi, su ciò che conta non esiste – in realtà – nemmeno lo straccio di un accordo preliminare. Come al solito, buy the rumors, sell the news. Ma sui giornali di oggi, state certi, sarà un florilegio di ottimismo.
C’è poi la questione banche. Ovvero, le modifiche alle regole di Basilea III, denominate ora Basilea IV. Il compromesso obbligherà le banche ad aumentare i livelli di capitale, ma gli istituti avranno tempo dal 2022 al 2027 per realizzare le misure richieste: le nuove regole prevedono l’introduzione di un cosiddetto output floor, un livello minimo per le richieste di capitale sugli asset, al 72,5%, con un regime transitorio dal 2022 al 2027. Il livello minimo inizialmente è previsto al 50% (nel 2022) per arrivare al 72,5% nel 2027. «Una pietra miliare che renderà il sistema di patrimonializzazione più solido e migliorerà la fiducia nel sistema bancario», ha affermato giovedì il Presidente della Bce Mario Draghi, in qualità di presidente del Ghos durante una conferenza stampa presso la Banca dei regolamenti internazionali (Bis). Si completa così un capitolo chiave di quel lungo percorso di riforme che la comunità internazionale ha avviato a seguito della crisi globale: «Sono riforme che aiuteranno a ridurre l’eccessiva diversità tra le valutazioni sui rischi e che miglioreranno la paragonabilità e la trasparenza sui livelli patrimoniali delle banche», ha rilevato Stefan Ingves, presidente del Comitato di Basilea.
Nessun accordo, invece, sul differente trattamento dei titoli di Stato in portafoglio alle banche, paletto molto temuto in Italia, al pari dell’addendum sugli Npl. Negli ultimi anni sono state ipotizzate misure per le banche sui bond pubblici: soprattutto i vertici della Bundesbank e della Vigilanza Bce avevano proposto requisiti di capitale (togliendo la ponderazione zero) e limiti alle esposizioni sovrane, addirittura portando alla creazione di una task force al riguardo, ma le considerazioni finali sono ancora lungi dall’essere approvate, lasciando sul tavolo pro e contro. Insomma, per ora niente cambiamenti alle regole sulle esposizioni ai titoli di Stato. Spiegato il rally di Piazza Affari. In contemporanea, poi, il Fondo monetario internazionale ha però chiesto «un recepimento tempestivo e coerente» del pacchetto di riforme che hanno rafforzato le regole prudenziali sulle banche di Basilea III. Il Fmi «gradisce la finalizzazione del pacchetto di riforme di Basilea III che dà maggiori assicurazioni sul fatto che i rischi principali ai quali il sistema bancario è stato esposto durante la crisi sono ora opportunamente indirizzati e sollecita le autorità nazionali a muoversi rapidamente per implementare queste riforme in modo tempestivo e coerente».
Ora, partiamo dal bicchiere mezzo pieno della situazione. La notizia è comunque positiva per le banche, ma anche per gli Stati che non vedranno salire i costi di finanziamento per effetto di un differente trattamento dei titoli emessi. Il livello minimo fissato al 72,5% è in linea con quelle che erano le stime degli analisti, i quali valutano positivamente il fatto che non vi siano state modifiche al trattamento dei titoli governativi e che siano stati introdotti dei correttivi per la valutazione dei mutui residenziali. Inoltre, il lungo periodo transitorio delle nuove norme e il livello al 72,5% non dovrebbero portare a scossoni per le banche che hanno 10 anni per adeguare i propri business model e ridurre l’impatto sul capitale.
Insomma, l’approvazione delle modifiche a Basilea 3 rimuove una delle incertezze regolatorie che hanno caratterizzato il settore bancario ed è positivo il fatto che non siano stati effettuati cambiamenti al trattamento dell’esposizione al rischio sovrano. In più, il periodo di implementazione è piuttosto lungo (9 anni prima della piena applicazione), a detta degli analisti di Banca Imi, «quindi lascia tempo alle banche per adattare i loro modelli di business alle nuove regole ed evitare il rischio di fabbisogni di capitale nel breve». Manca un pezzo, però. Manca il bicchiere mezzo vuoto.
Perché la Bce ha ceduto così di colpo, proprio in un periodo in cui invece stava operando con lo spirito del cosiddetto “poliziotto cattivo”? Semplice, perché lo stesso Fmi che ha fatto da contraltare alle nuove norme ha mandato un segnale poco piacevole ai mercati: lo stress test appena concluso sulle banche cinesi ha evidenziato, con notevole ritardo sui report degli analisti indipendenti, un buco potenziale di capitale da 280 miliardi di dollari. E siccome, al netto delle panzane sulla ripresa sincronizzata a livello globale, è sempre e comunque l’impulso creditizio cinese a mantenere in piedi lo schema Ponzi dei mercati, ecco che le Banche centrali, Bce in testa, entrano in modalità “colomba”.
Questi due grafici ci spiegano bene la situazione: al centro del buco nero cinese evidenziato dal Fmi ci sono i famigerati prodotti di gestione del risparmio, di fatto bombe a orologeria esattamente come i derivati. Certo, i calcoli del Fondo si basano su uno scenario particolarmente severo e le perdite sarebbero pari – al massimo della negatività – al 2,5% del Pil cinese, ma sono gli scossoni sistemici sui rapporti di controparte e il crollo della credibilità nello scudo delle Banche centrali a far paura. Anche se i rischi del Dragone fossero di minore entità. Il secondo grafico, poi, parla chiaro: la Cina ormai è ben oltre il concetto di too big to fail, è l’architrave stesso del minimo di stabilità che ancora i mercati e l’economia ultra-finanziarizzata stanno vivendo. Leva la massa creditizia di Pechino, al netto dell’esportazione di deflazione che è il prezzo da pagare, e il grande inganno globale del Qe come stimolo salvifico crollerebbe come un castello di sabbia.
Di fatto, l’euforia di ieri è basata sul concetto malato di nuova stabilità nato dalla crisi del 2008: finché c’è emergenza si festeggia, perché significa che le Banche centrali resteranno al timone. E per ingenerare sempre nuova emergenza, occorre proseguire con la politica dell’azzardo morale. Un cane che si morde la coda. E che, prima o poi, smetterà di girare come una trottola e crollerà al tappeto, esausto e con la lingua a penzoloni. Festeggiamo pure l’accordo sul Brexit e il ridimensionamento di Basilea III, ma occorre essere consapevoli di cosa sta realmente dietro quei risultati e quelle scelte. Altrimenti, si rischia davvero di celebrare in pompa magna il proprio funerale.