Dott. Pavarin, si è parlato, anche su queste pagine, di filiera della sicurezza. Cioè che alla certezza della pena deve corrispondere la certezza del recupero: in vista di che cosa?
In vista del reinserimento sociale del condannato, che è garantito dall’articolo 27, terzo comma, della Costituzione. Nel concetto di rieducazione, che è uno degli scopi per non dire l’obiettivo principale della pena, è insito anche quello del reinserimento sociale. Al punto che si dice, ad esempio, che l’ergastolo è costituzionalmente legittimo in quanto può venir meno a seguito della concessione di benefici, come ad esempio la liberazione condizionale. Una pena eterna non sarebbe rieducativa, perchè non preluderebbe al reinserimento sociale del condannato, garantita a qualsiasi persona accetti il trattamento penitenziario. Infatti questo prevede il riappacificamento del soggetto con quei valori che ha leso commettendo il reato. Se uno non vuole aderire a questo percorso può anche rimanere in galera per tutta la vita, dice la Corte costituzionale, ma se uno vuole, tramite il trattamento può aspirare al reinserimento. E uno degli elementi di punta del trattamento penitenziario è proprio il lavoro.
Come va concepito, a suo modo di vedere, il lavoro in carcere?
Tradizionalmente la triade del trattamento era la religione, l’istruzione e il lavoro. Quest’ultimo, in base alla legge penitenziaria, costituisce l’oggetto di un obbligo da parte dello Stato, che è tenuto a far lavorare i detenuti o di dare lavoro, cui corrisponde il dovere del detenuto di prestare lavoro. Il lavoro non è però concepito come avveniva nel passato, cioè come elemento che fa parte della punizione, della retribuzione della pena. Mentre in passato la concezione dei “lavori forzati” aveva come presupposto che la penosità, la fatica del lavoro facesse parte del castigo. Oggi non è più così.
Quindi in passato aveva unicamente una funzione risarcitoria?
In passato aveva una dimensione risarcitoria della comunità, al punto che il lavoro non era retribuito. In origine l’ergastolo era proprio la pena al lavoro forzoso, dal greco ergàzomai, “io lavoro”. Era una pena, anche temporanea, che non presupponeva necessariamente la pena perpetua, ma il contenuto pregante era il lavoro gratis come servizio alla collettività. Così era anche nel diritto romano la condanna ad metalla, che presupponeva il lavoro gratis in miniera per lo Stato, per la comunità.
Oggi invece il lavoro penitenziario ha prima di tutto carattere retribuito, è oneroso, non è gratis. Al punto che il giudice del lavoro ha competenze sulle controversie che possono sorgere tra l’istituzione penitenziaria e il detenuto e in secondo luogo serve ad indurre mutamenti positivi nella persona che sta in carcere. Da noi sono pochi i detenuti in carcere che lavorano perché l’amministrazione non ha mezzi sufficienti. Diversamente da quanto avviene in altri ordinamenti: nel sistema penitenziario cinese, per esempio, non c’é detenuto in carcere che non abbia la possibilità di lavorare. Là però il lavoro è gratis.
Chi dà lavoro ai carcerati?
Il lavoro in carcere può essere svolto sia alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, sia alle dipendenze di imprese che vengono da fuori, come fanno al carcere di Padova
Che esperienza ha lei della positività del margine di successo di questi esperimenti di lavoro?
Intanto le posso dire che il detenuto cambia radicalmente l’espressione del volto. Io vado una volta al mese in carcere a fare colloqui ai miei detenuti di Padova, e quando vedo un detenuto, prima che apra bocca, capisco che c’è qualcosa di diverso. Di solito i casi sono due: o ha avuto una bella notizia da casa, un permesso, oppure l’hanno ammesso a lavorare. Cambia sensibilmente, diventa meno rancoroso, inizia una nuova vita. Intanto iniziando a percepire un po’ di soldi si sente di nuovo utile e spesso soprattutto gli extracomunitari riescono a mandare qualche soldo a casa. 50 euro in Italia non sono niente, ma altrove è molto diverso.
Avere un lavoro retribuito è dunque un elemento decisivo.
I detenuti riescono così a riscattare la loro immagine fatta a pezzi dalla condanna, perchè i rapporti spesso si incrinano con la famiglia, con la società, con gli amici; quindi il riuscire a contribuire al mantenimento di un figlio, a fare un regalo, mandare qualcosa fuori, significa dire “io valgo ancora qualcosa”, rimane una parte di umanità che viene ancora valorizzata e sulla quale qualcuno investe.
Poi c’é qualcuno che accede al lavoro dopo aver fatto un corso di formazione, per cui gente che entra senza sapere ne leggere ne scrivere acquista un diploma (licenza media, quinta elementare), fa un corso di formazione, comincia a essere utile e viene inserito in una filiera che gli consente di mettersi in gioco.
Si apprezza il denaro. Chi era abituato ad avere diecimila euro al giorno facendo il delinquente, non avrebbe mai immaginato che per guadagnare cento euro ci volessero otto ore di lavoro e questo fa scoprire a molti una dimensione della vita sulla quale non avevano mai riflettuto. E questo contribuisce ad aumentare il grado di revisione critica circa il disvalore delle condotte compiute. La prova dell’utilità del lavoro sta anche nel fatto che quando il lavoro viene meno e viene fatto fare a rotazione, e il detenuto non lavora più e passa in cella 20 ore su 24, è spesso soggetto a crisi depressive.
E nel caso di detenuti disturbati o afflitti da problemi psichici?
Il lavoro viene usato anche per i soggetti che hanno delle patologie psichiche. Mettendo dei soggetti seminfermi di mente a fare qualcosa, si è trovato che il lavoro ha una valenza terapeutica. Questi soggetti hanno un canale preferenziale e vengono messi a lavorare prima di altri. Altri ancora vengono ammessi in base all’anzianità di detenzione, alle condizioni della pena, alle condizioni economiche, al numero di carceri nei quali sono passati. Ci sono infine, in carcere, dimensioni del lavoro che mutuano quello che avviene nella società civile.
Può spiegare meglio?
Sono previsti addirittura accordi sindacali di intervento di enti di formazione professionali, di intervento della Regione, di aziende pubbliche o private convenzionate, un sistema di collocamento del lavoro all’interno del carcere. Che, purtroppo, è largamente disapplicato.
Purtroppo non si è attuato fino in fondo quello che l’ordinamento penitenziario ha previsto in materia.
Bisogna anche dire che non tutto lo stipendio va al detenuto, perchè una parte va trattenuta dall’amministrazione a rimborso delle spese di giustizia e di mantenimento del carcere. Anche le mercedi – non si chiama stipendio o retribuzione, purtroppo c’é ancora questo vecchio termine di mercedi – dovrebbero essere stabilite da una commissione composta dal direttore dell’amministrazione penitenziaria, dal direttore dell’ufficio, da un rappresentante del Ministero del Tesoro e del lavoro, dai rappresentanti sindacali, un sistema che purtroppo è rimasto largamente inattuato anche se previsto dall’articolo 22 della legge penitenziaria. C’è una parte importante di questa legge confezionata bene che però è rimasta disapplicata. Ma non mi chieda il perchè.
Quanto si sente esposto in termini di responsabilità alla libera scelta del detenuto tra la scelta di affidarsi ad un percorso lavorativo e la scelta – una volta fuori – di tornare a delinquere?
Ogni volta che si concede un beneficio a una persona che ha avuto una o più condanne si corre un rischio ineliminabile. L’importante è che questo rischio sia ragionevole. Una persona che ha commesso un reato è per definizione pericolosa perchè ha dato mostra di aver violato una o più volte la legge penale. Dobbiamo valorizzare il cammino che ha intrapreso questa persona e concordare con lui una riammissione all’esterno. Se il rischio è ragionevole non ritengo che il magistrato abbia responsabilità. Purtroppo è successo nel recente passato che la giustizia disciplinare, cioè il Consiglio Superiore della Magistratura, abbia sanzionato i nostri comportamenti.
Si riferisce a qualche caso particolare?
A quella in cui è incorso il tribunale di sorveglianza di Palermo, che ha concesso la semilibertà al signor Izzo. Da quella sentenza in poi sembra quasi che si sia affermata una sorta di responsabilità oggettiva in capo di magistrati di sorveglianza per le condotte poste in essere da soggetti che godono di benefici penitenziari, applicando la vecchia logica del post hoc, ergo propter hoc, ovvero “è successo dopo aver dato la semilibertà, quindi è colpa tua”. Speriamo che la Corte di Cassazione cambi i parameri di valutazione di quella che mi pare a tutti gli effetti l’esito di una logica deterministica.
L’attuale ordinamento aiuta del tutto il magistrato di sorveglianza?
No, lo espone a un rischio notevole anche perchè la pubblica opinione è un giudice ancor più severo degli esperimenti che finiscono male. Poiché la legge ci autorizza e non ci impone la concessione delle misure alternative e degli altri benefici, quando applichiamo questo nostra facoltà e l’esperimento va male è ovvio che la gente addita noi come responsabili. Questo può anche essere giusto, ma tenga conto che l’attività di osservazione della personalità in carcere è molto limitata e carente, ci sono pochissime figure di educatori e di psicologi che aiutano i magistrati a cogliere l’intima essenza della personalità.
In base alla legge ogni persona dovrebbe intraprendere, una volta entrata in carcere, una riflessione sulla condotta giuridica posta in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative che ha creato per l’intero Stato, per le vittime, per i suoi familiari e dovrebbe riflettere sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato incluso il risarcimento del danno. Lo dice l’articolo 27 del regolamento penitenziario. A Padova però su 700 detenuti abbiamo 2 educatrici, che riescono a vedere il condannato mezz’ora ogni anno e mezzo. Ed è francamente insufficiente l’informazione che assumiamo noi con i colloqui che, una volta al mese, facciamo in carcere tentando di conoscere più da vicino il detenuto.
E questi colloqui sono condotti da voi magistrati?
Sì. Noi magistrati di sorveglianza abbiamo l’obbligo di fare i colloqui ai detenuti. Sono indispensabili perchè prima di concedere qualcosa a qualcuno bisogna averlo visto in faccia e avergli parlato a viso aperto. Lo porto in ufficio, ho una sua foto e di lì a un anno, quando lo vedo, cerco di affidarmi il più possibile alla sua storia, a quel che dice di sé, perchè se uno non capisce perchè l’altro ha delinquito dà un giudizio privo di fondamento logico.
Sono sempre di più gli extracomunitari nelle nostre carceri. Cosa ne pensa del reato di immigrazione clandestina all’esame del Parlamento?
A prescindere dalla valutazione giuridica, che non mi compete, di fatto avrà un impatto terribile sul sistema. Chi, naturalmente nel futuro e non nel passato, entra in Italia senza il permesso, commetterà un reato per il quale si prevede l’arresto in flagranza e il processo per direttissima.
Il giudice, anziché applicare la pena da sei mesi a quattro anni, ha l’obbligo di espellere il soggetto. Altro non è che un invito a lasciare il territorio. Se il soggetto non ottempera all’ordine del giudice commette un altro reato, punito con una pena da
Il che vorrà dire costi e sovraffollamento.
Il sovraffollamento c’é già perchè in Italia entrano in carcere 700 detenuti al mese. Siamo quasi al livello del 30 luglio 2006.
Vuole spiegare al lettore cosa significa quella data che ha citato?
Il 30 luglio 2006 è il giorno della approvazione del provvedimento di indulto. Alla data del provvedimento c’erano in carcere 63mila persone. Con l’indulto se ne è andata quasi
Sta facendo una considerazione quantitativa o sta entrando nel merito dell’indulto?
Non entro nel giudizio di merito né dell’indulto né del reato di immigrazione clandestina. Dico che è impossibile gestire questo nuovo reato e che una norma penale si delegittima nella misura in cui si sa già che non potrà essere applicata. Se entrano in Italia 100mila clandestini l’anno non possiamo fare 100mila arresti, né processi per direttissima, né eseguire espulsioni. È illusorio.
Un istituto clemenziale come l’indulto sembra venire in contrasto con il percorso di reinserimento di un detenuto attraverso il lavoro.
Certamente sì: viene cancellata una parte di pena in cambio di nulla. È stato un provvedimento ispirato a ragioni solo umanitarie. L’affollamento delle carceri era disastroso, è stato un gesto di umanità. C’era stato anche l’appello umanitario della Chiesa, dei volontari e dei politici che avevano frequentato i nostri istituti e avevano visto in che condizioni erano le nostre carceri. Si conoscevano bene i rischi e i pericoli sul terreno della sicurezza, è andata abbastanza bene perchè in fondo i soggetti indultati tornati a delinquere non sono stati poi moltissimi. Adesso però le condizioni che c’erano al tempo dell’indulto si stanno ricreando. La popolazione carceraria, con questa nuova legge sull’immigrazione clandestina, è destinata ad aumentare di migliaia di unità.