Per avere un’idea sui rischi che corre l’Italia alla ripresa d’autunno basta dare uno sguardo al grafico di Bloomberg che segnala il volume degli scambi sulle opzioni relative ai contratti di vendita sulla Borsa italiana: l’importo dei contratti è schizzato ai massimi dal 2013. Che significa? In parole povere, il contratto segnala le coperture accese dagli speculatori a fronte delle vendite, anche allo scoperto, effettuate sul listino italiano nella convinzione che i prezzi siano destinati a scendere. Il trend sta a indicare che i mercati annusano aria di crisi per il Bel Paese, perciò gli operatori si attrezzano per moltiplicare, grazie all’arma dei derivati, la potenza di fuoco da scaricare contro la finanza di casa nostra.
Bloomberg ha sintetizzato la situazione con questo titolo: “Gli operatori si preparano alla tempesta nel mercato peggiore del mondo”, che sarebbe poi l’Italia, alla faccia dei primati vantati da palazzo Chigi. Perché questa presunzione negativa? Solo un anno fa, nell’estate del 2015, l’Italia godeva di ben altra considerazione: di fronte alla crisi della finanza cinese, gli operatori decisero all’epoca di far rotta in massa sul mercato italiano, con il risultato di spingere al rialzo Piazza Affari del 13%, ai massimi dal 2009, quando la crisi internazionale aveva provocato il crollo dell’economia manifatturiera. La finanza internazionale era convinta che fosse vicino il punto di svolta grazie alle riforme già varate, vedi Jobs Act, o sulla rampa di lancio, vedi le modifiche alla carta costituzionale.
Altri tempi: nel 2016 la Borsa italiana è stata finora di gran lunga la peggiore d’Europa da gennaio, con una perdita del 25%. L’unica, tra l’altro, che non ha recuperato il ribasso seguito al referendum inglese. L’ombrello protettivo della Bce ha evitato attacchi alla finanza pubblica, comunque in costante peggioramento nonostante i tassi a livelli infimi, ma la furia ribassista si è scatenata sulle banche, complice il macigno di 360 miliardi di sofferenze lorde. Inutile sottolineare, poi, l’impatto che ha avuto (e continua ad avere) la crisi del Monte Paschi sulla percezione del rischio Italia.
I motivi che giustificano il cambio di umore non mancano. Anzi, aumentano se si guarda alla frenata dell’economia reale. Ma quel che rende il Bel Paese un bersaglio naturale della speculazione è la fragilità del quadro politico. “L’Italia è stata venduta più di quel che suggerivano i numeri – spiega a Bloomberg Kevin Lilley di Old Mutual Global Investing -. Colpa dell’incertezza politica, colpa di Renzi che ha legato il suo futuro politico al referendum”. E così mister Lilley fa sapere di aver venduto tutto quel che aveva di tricolore in portafoglio, magari dopo il warning di Dbrs, l’agenzia di rating canadese che minaccia di levarci l’unica “A” in pagella della Repubblica Italiana.
Non ci sono solo note negative, per fortuna. Grazie anche all’attivismo di Renzi, l’Italia ha attratto l’attenzione di Amazon e di Apple, mentre Michael O’Leary ha annunciato una formidabile crescita dell’impegno di RyanAir nel Bel Paese. Ma gli investimenti restano ai minimi. E gli acquisti dall’estero esaltano una certa schizofrenia nostrana. Da una parte sono i benvenuti, ossigeno indispensabile per una società che non trova più i quattrini per intraprendere. Dall’altra suscitano grida d’allarme per una presunta svendita dei gioielli di famiglia. Un’apparente contraddizione dietro cui si nascondono i limiti culturali, ancor prima che economici, del Paese che stenta a rimettersi in gioco in un momento di forte competizione internazionale.
L’Italia ha ancora molte carte da giocare. Ma rischia di limitarsi a un ruolo gregario se continuerà a ostinarsi a difendere “l’eccezione italiana” rispetto al mondo. È assurdo l’allarme a difesa delle banche italiane “accerchiate” dagli stranieri, almeno finché l’Italia continuerà ad avere più istituti bancari di piccole e medie dimensioni che pizzerie, come denuncia il Financial Times. Sono passati due anni dall’avvio della riforma delle Popolari, ma l’unica aggregazione (Bpm-Banco Popolare) non è ancora realtà. Intanto il codice degli appalti resta sulla carta, ma già promette ricorsi, modifiche e rinvii. E così via: l’Italia resta agli occhi degli investitori il Paese delle riforme annunciate ma nei fatti bloccate. Dalla politica, ma anche da imprenditori che preferiscono passare la mano piuttosto che rilanciare il proprio impegno in un momento più complesso. O da sindacati illusi che dalla crisi si esca solo con il rilancio dei consumi attraverso aumenti di salari e pensioni. O da una Pubblica amministrazione che non rinuncia a trattamenti di favore. E così via.
Fa comodo, di questi tempi, scaricare sull’Unione europea, che pure ha tante responsabilità, problemi che vanno risolti in casa nostra. Ma la strategia di rimettere in funzione la ripresa con la “flessibilità” (ovvero nuovi debiti) è davvero un azzardo. O almeno così la pensa la maggior parte di chi nel mondo deve gestire i risparmi di famiglie e lavoratori.