Si legge nelle slide del Governo, così come sul documento di esperti contenente le “Ragioni del sì”, che il sistema delle garanzie verrebbe significativamente potenziato (anche) grazie a un quorum più alto per eleggere il Presidente della Repubblica. L’affermazione appare difficilmente sostenibile. Vediamo perché. Con la riforma, l’elezione avverrebbe da parte di un organo e con maggioranze diversi rispetto ad ora. Partiamo dall’organo. Il Parlamento in seduta comune cambierebbe fisionomia a causa della mutata struttura del Senato, con la riduzione di quasi un quarto dei componenti (da circa 950 a circa 730 unità), e un differente equilibrio tra i due rami (da un rapporto di 2 a 1 a uno di 6,3 a 1 a favore della Camera). I componenti esprimerebbero una diversa rappresentanza: della nazione i deputati, delle istituzioni territoriali i senatori elettivi, mentre non pare chiaro cosa rappresenteranno i senatori non elettivi (sia quelli nominati sia gli ex Presidenti della Repubblica). Verrebbero poi meno i 58 delegati regionali attualmente previsti.
Passiamo alle maggioranze. Oggi si richiede quella dei 2/3 dell’assemblea nei primi tre scrutini e quella assoluta (vale a dire la metà più uno degli aventi diritto) dal quarto in avanti. Con il testo riformato si richiederebbe pur sempre la maggioranza dei 2/3 dell’assemblea nei primi tre scrutini, poi quella dei 3/5 nei tre scrutini successivi (dal quarto al sesto), fino a considerare sufficiente la maggioranza dei 3/5 (non, però, dell’assemblea, ma) dei votanti dal settimo in avanti. In sostanza, con un minimo di approssimazione poiché i numeri non sono fissi, dall’attuale consenso di oltre 660 voti nei primi tre scrutini e non meno di circa 500 in quelli successivi, si passerebbe (calcolando, per semplicità, in 730 la composizione del nuovo organo) a 487 voti nei primi tre scrutini (i 2/3 di 730), a 438 nei successivi tre (i 3/5 di 730), fino a un numero imprecisabile, perché calcolato sui votanti, dal settimo in avanti.
Si può provare a fare, al riguardo, qualche ipotesi. A un estremo, allorché siano presenti e votino tutti i componenti, il numero richiesto rimarrebbe di 438. E’ però ragionevole immaginare un numero fisiologico di assenze. Se si esamina la serie delle votazioni dal 1948, nelle dodici occasioni si sono registrati assenti, in media, tra 16 e 17 elettori. Calcolando i 3/5 dei votanti sul numero conseguente (713), la maggioranza richiesta scenderebbe a 428.
All’altro estremo, stante la regola generale di validità delle deliberazioni (art. 64 Cost.), che impone la presenza della maggioranza dei componenti, si potrebbe dare come caso limite il numero di 366 (la metà più uno di 730), risultando allora sufficienti per l’elezione 220 voti a favore (i 3/5 di 366).
Ogni considerazione sul significato politico di queste maggioranze andrebbe poi condotta alla luce della nuova legge elettorale. In forza dell’Italicum, infatti, sono attribuiti comunque 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40% dei voti validi o, in mancanza, a quella che prevale nel turno di ballottaggio.
In conclusione, numeri alla mano, l’affermazione che il quorum sia più alto e il sistema potenziato appare, all’evidenza, ben poco fondata.
Sia sul piano astratto, dal momento che si passa dalla maggioranza assoluta dei componenti a quella bensì dei 3/5, ma dei votanti, e ciò riflette, di per sé stesso, una riduzione delle garanzie.
Sia in concreto. Pur tenendo conto della ridotta composizione del nuovo Parlamento in seduta comune (ma dovendo allora considerare anche i criteri di scelta dei senatori e il possibile ampio premio di maggioranza alla Camera), il quorum in assoluto più alto per l’elezione sarebbe, come detto, di 487 unità, per poi scendere a 438 e a numeri ulteriormente più bassi. Questi, invece, i numeri dei voti risultati necessari in occasione delle elezioni succedutesi finora: Einaudi, 451; Gronchi, 422; Segni, 428; Saragat, 482; Leone, 505; Pertini, 506; Cossiga, 674; Scalfaro, 508; Ciampi, 674; Napolitano I, 505; Napolitano II, 504; Mattarella, 505. Senza considerare la circostanza che due sole volte l’elezione è avvenuta nei primi tre scrutini, mentre cinque sono le occasioni in cui essa è intervenuta, diciamo, dal terzo al sesto (che però in passato non aveva rilevanza) e cinque dopo il settimo, allorché scatterebbe, secondo la nuova disciplina, proprio l’abbassamento ai tre quinti del votanti, oggettivamente meno garantista nell’ottica della legittimazione di cui deve godere il Capo dello Stato.