Di fronte al referendum costituzionale prossimo venturo, qualcuno ha già preparato gli slogan. I sostenitori della riforma sembrano avere gioco facile: conservatori vs. riformisti; casta vs. rottamatori; spreco vs. riduzione di risorse pubbliche; duplicazione vs. semplificazione; lentezza vs. rapidità. I contrari si appellano invece ai principi, della democrazia, della ragione e della Costituzione. Ma sono già divisi: il primo comitato per il no — ieri presentatosi informalmente — non vedrà partecipi i partiti del centro-destra, né il Movimento cinque stelle. Qualcuno ipotizza anche la costituzione di comitati per il sì “critico”, ma il loro spazio sarebbe assai limitato, assomigliando a quello dei “cespugli” di altri tempi. Per il momento nessuno si rifugia nell’astensione, anche perché si è ben consci che in un referendum senza quorum — come, per l’appunto, quello costituzionale — vincerà chi riuscirà a portare al voto il maggior numero di cittadini.
Il presidente del Consiglio ha escogitato la più ardita delle soluzioni. Scommettendo sull’esito positivo del referendum e mettendo in gioco sé stesso e la sopravvivenza del suo governo, otterrà, in caso di successo, ciò che l’azione politica sinora non gli ha concesso: l’effetto di legittimare un governo, una maggioranza e un parlamento abbondantemente lontani dalla maggioranza dell’opinione pubblica. Inoltre, quanto più si alza la posta, tanto più si concentra nel referendum e nell’autunno del 2016 il punto di svolta nel confronto tra le forze politiche. E, come è noto agli esperti di queste consultazioni, il primo obiettivo di chi intraprende l’iniziativa referendaria è determinare o condizionare in modo decisivo l’agenda della discussione pubblica e il relativo ordine del giorno.
Alla “governizzazione” del referendum, comunque, non si era mai assistito, nemmeno nel caso del referendum più politico che si sia svolto nell’Italia repubblicana, quello sul divorzio negli anni Settanta. Certo, se è vero che la Costituzione attribuisce l’iniziativa referendaria a determinati soggetti chiaramente minoritari, è altrettanto vero che il dettato costituzionale non preclude alle stesse forze di maggioranza l’uso di questo strumento per chiedere conferma delle decisioni già assunte in Parlamento. Tuttavia, legare pubblicamente il voto popolare non solo alla permanenza del governo, ma anche allo scioglimento delle Camere (in caso di esito negativo), fa assumere al tutto un tono spiacevolmente plebiscitario. E tanto più quando ciò viene annunciato così chiaramente da anticipare valutazioni che spettano in via esclusiva al Capo dello Stato.
In definitiva, il richiamo alla valutazione dei contenuti della riforma appare una strada in salita. Ma non si deve perdere la fiducia nella possibilità che dal dibattito possano emergere le voci di chi intende confrontarsi sul merito e sugli esiti istituzionali che ne deriveranno. Del resto, saremo di fronte ad una scelta dilemmatica che non consentirà terze vie: o consentire alla riforma approvata dal Parlamento oppure garantire la permanenza dell’attuale Costituzione. E’ necessario, insomma, che al centro del referendum prossimo venturo rimanga il suo vero tema: la Costituzione. Solo se questo accadrà, il popolo potrà decidere in modo davvero consapevole.