Caro direttore,
permettimi di spendere qualche parola diversa da quelle finora usate in queste settimane sul nascente governo di Matteo Renzi. L’esecutivo che è al lavoro, è bene ricordarlo, con tutti gli effettivi 16 ministri e 44 viceministri e sottosegretari dal 28 febbraio scorso, ovvero da 15 giorni, corre e ci sta abituando a cose mai viste, tanto è vero che una delle parole più ricorrenti nel leggere i primi passi del nuovo governo e del suo leader è l’aggettivo shock. Lo usano gli analisti, i media, persino qualche cancelleria. E si riferisce ai comportamenti di Renzi, al suo linguaggio, alle misure annunciate. Lo usa in modo positivo o negativo, beninteso, ma lo si usa per segnalare che qualcosa di nuovo e importante sta succedendo.
L’uomo che poco dopo essersi insediato come segretario del Pd (ricordiamo la da data, 15 dicembre a Milano, tre mesi fa) non ha avuto nessun problema a intavolare un dialogo con Berlusconi, il diavolo e il pregiudicato, per sottoscrivere un patto sulle riforme istituzionali ferme nella palude istituzionale parlamentare da oltre un decennio, la palude che ci ha portato nella situazione paradossale, se non surreale, dal punto di vista istituzionale di questi mesi non ha paura a risalire le correnti in senso contrario, dentro il suo partito, dentro il Parlamento (emblematico il suo debutto in Senato “mi auguro che questa sia l’ultima volta che un presidente del Consiglio chieda a quest’aula la fiducia”) e persino nei gruppi parlamentari Pd di rito ancora bersaniano, per questa navigazione contro la corrente di palazzo, Renzi trae la forza necessaria sia da un consenso vero dentro il Paese sia da un’abbondante dose di coraggio personale e forse anche di incoscienza.
Renzi, come ha dimostrato, è capace di risalire in senso contrario persino i suoi stessi progetti e sogni, come l’idea di insediarsi a Palazzo Chigi sull’onda di un voto popolare, se la realtà chiede scelte diverse. E sbaglieremmo a imputare soltanto alla voce, “ambizione personale”, questa sua fretta e questo suo realismo. La fretta di Renzi ha a che fare non solo con la sua natura, con la sua età e le sue personali ambizioni, ma anche e soprattutto, con l’esatta percezione che siamo all’ultimo atto, e forse anche alle ultime pagine, di quella che sino ad oggi abbiamo chiamato politica incalzata da un Parlamento inetto e litgioso (incapace persino di eleggere un presidente della Repubblica e ridotto a passacarte dei decreti governativi), una disoccupazione che si avvicina ormai al 13% (al 42% quella giovanile) e da una povertà in aumento. Siamo all’ultima chance per dimostrare che politica è capacità di cambiare le cose, farsi carico del bene comune, della comune speranza di costruzione e di ri-costruzione delle nostre città e del nostro Paese.
È con questo realismo pratico che riesce a non disgiungersi da una certa ed enunciata idealità (il senso di un progetto per il Paese e quello di un ricambio politico) che Renzi ha dato vita a un esecutivo snello, 16 ministri, delle pari opportunità nei fatti e non per le quote rosa o per il nome di un ministero (8 le donne) e il più giovane della storia repubblicana. Un esecutivo che bada al sodo senza effetti speciali ricchi premi e cotillon. Meno star e prof universitari, nessun tecnocrate o bocconiano, nessuna Idem o Kyenge, figure buone per i titoli e le foto dei media ma assai meno per governare. Un esecutivo più rude e politico di quelli che lo hanno preceduto, con radici profonde nella società (i sindaci ora al Governo), nelle forze produttive del Paese (si veda Federica Guidi alle attività produttive) e persino nei corpi intermedi, si veda la nomina di Poletti al Lavoro e welfare e a quella come suo sottosegretario di Luigi Bobba, rispettivamente già leader di Legacoop e Acli (cosa che ovviamente non piace a circoli e salotti élitari). Radici politiche e popolari che sostituiscono le radici aeree dei Governi Monti e Letta che hanno sorvolato le nostre teste e abitavano piuttosto i palazzi del potere globale da Bruxelles a Davos a Londra o New York.
Renzi in questi anni, chi ha seguito gli appuntamenti della Leopolda ha visto plasticamente il crescere progressivo di una nuova modalità di fare politica capace di aggregare pezzi di società e Paese, ha saputo suscitare la speranza di una nuova politica, io credo, perché ha saputo guardare alle ultime risorse vere di questo Paese evocandole e convocandole: la sua bellezza, la sua capacità di mobilitazione civica e sociale, la sua capacità di intraprendere. Matteo Renzi sa, e la sua biografia e l’esperienza amministrativa lo hanno sicuramente aiutato, che le leve vere del cambiamento stanno dentro la società e non dentro i Palazzi. Ed è per questo che non ne ha paura. A chi rimprovera a lui e alla sua squadra di non avere abbastanza dimestichezza col potere, come Lucia Annunziata che in quei gangli vive e vegeta da decenni, possono rispondere con un sorriso “è la nostra forza”.
Significativa, la citazione di Chesterton con cui Renzi ha chiuso il suo discorso alla Camera: “Il mondo non morirà per mancanza di meraviglie, ma per mancanza di meraviglia”. La meraviglia, ha chiosato il premier, d’ogni giorno di fronte a un Paese straordinario. Meglio girare tra le scuole d’Italia che stare troppo a Roma. Per chi da oltre vent’anni, come il sottoscritto, cerca di narrare la società civile come risorsa prima per il Paese e come motore primo d’ogni possibile ripartenza, non può non notare che il vero shock renziano mi pare consistere anche in questo, il ridisegno del campo da gioco dell’azione politica e di governo.
Uscendo dall’incontro con il Presidente della Repubblica nel momento di sciogliere la riserva sull’incarico affidatogli, al momento di leggere i nomi dei 16 ministri Renzi, ne ha chiosato solo uno, quello di Giuliano Poletti al il ministero del Lavoro e Welfare, ed ha aggiunto, “e del Terzo settore che terzo non sarebbe per numeri ed energie messe in campo e che sta soffrendo molto”. Concetto ribadito anche nella Conferenza stampa dopo il primo Consiglio dei ministri di pochi giorni fa, quando annunciando un Fondo per le imprese sociali di 500 milioni, il premier ha detto: «È una misura che caratterizza questo governo, noi crediamo che il terzo settore, che poi è il primo, sia una grande e indispensabile risorsa. Vogliamo incoraggiarli a creare posti di lavoro con l’impresa sociale. Non vogliamo più dire “ah come sono carini quelli del Terzo settore” come s’è fatto troppe volte sino a ieri, noi sappiamo che quelli del terzo settore creano lavoro. Con questo Fondo vogliamo aiutarli a inventarsi soluzioni nuove per lo sviluppo e l’occupazione”.
Dopo anni in cui chi governava non sapeva che proporre una nordica teologia del debito pubblico come colpa pubblica da espiare per sostenere la rapina dei nostri redditi, pensioni e persino di anni di pensione, dopo gli anni del “Ce lo dice l’Europa”, e della teoria secondo cui “del Welfare parliamo dopo che torniamo a crescere”, dopo anni per cui le anomalie italiane della cooperazione e dei corpi intermedi andavano contenute se non eliminate, che ci sia un presidente del Consiglio che nei discorsi alla Camera e in Senato spende la prima mezz’ora per spiegare che non si dà nessuno sviluppo se non si riparte dall’educazione, e quindi anche dalla scuola. A me sembra un vero shock positivo, e mi chiedo perché i firmatari dei vari appelli sull’emergenza educazione non se ne siano neppure accorti.
Che ci sia un presidente del Consiglio che parla del Terzo settore come risorsa per creare sviluppo e occupazione e non come cerotto e croce rossa sociale da usare nelle emergenze, e chiami al governo leader della cooperazione e dell’associazionismo non per sussumere classe dirigente ma per ridisegnare il campo dell’azione politica a me pare un altro shock positivo. E mi chiedo come mai i promotori a inizio anni 2000 di una legge popolare sull’impresa sociale che ora il Goevrno vuole finanziare con 500 milioni e rendre più protagonista con una nuova legge se ne stiamo in disparte silenti o rancorosi.
Così come lo spostare, finalmente, la tassazione dal lavoro alle rendite finanziarie e il dire, tramite manovra fiscale, “Ragazzi i soldi c’erano è che li spendevano male e per loro”, sottolinea giustamente il premier, a me pare iniezione necessaria di fiducia in un Paese arrivato al nuovo anno sfiduciato e in ginocchio. Solo per i fighetti e garantiti giornalisti e chi vive delle rendite residuali ma diffusissime in questo Paese può irridere 80 euro al mese in più.
Ora è evidente che le sfide che questo Governo ha davanti sono difficilissime così come le condizioni parlamentari e di coalizione, ma non concedere non solo la fiducia necessaria sino a prova contraria, ma lo stare in disparte ad aspettare un po’ rancorosi e un po’ rassegnati a me pare posizione sbagliata.