Beppe Sala si autosospende da sindaco di Milano dopo aver appreso dai giornali di un avviso di garanzia e dice: “Non dico che non mi fido dei magistrati, ma neppure il contrario”.
Virginia Raggi si limita ritualmente alle “scuse ai romani” e alla “serenità e fiducia nei magistrati”, dopo l’arresto di Raffaele Marra, capo del personale del Comune di Roma e per mesi vicecapo di gabinetto del neo-sindaco di Roma.
Due stili diversi, anzitutto per due vicende differenti. Il sospetto di irregolarità procedurali per Sala a fronte dell’emergere di indizi di grave corruttela personale nel cuore del Campidoglio. Milano e/o Roma, confronto strutturale e simbolico nella storia e nella geografia del Paese. E non c’è dubbio che nel dicembre 2016 la Milano dell’Expo (quella in fondo no-partizan che ha portato Sala a Palazzo Marino) stesse conoscendo un momento favorevole: di visibilità e di progettualità da grande metropoli globale. A Roma, al contrario, la stessa Raggi è stata in parte vittima di un fase di declino/degrado non solo amministrativo del sistema-Capitale.
E’ su questo sfondo che l’autosospensione del primo cittadino di Milano è parsa subito una reazione “attiva”: l’esatto contrario di un disimpegno. Anzi: la spinta alla “chiarezza subito” sembra premessa di un rafforzamento e affermazione di indipendenza del “salismo” nei confronti del “renzismo”, dopo la faticosa vittoria di giugno, l’unica del Pd a difesa di un avamposto al Nord. Sembra invece entrare nella sua crisi definitiva la “presa di Roma” mai realmente maturata per i Cinque Stelle: al termine di un semestre-metafora di un movimento che non riesce a darsi credibilità minima di forza di governo. E che a Roma rischia di perderla del tutto, all’inizio di una lunga rincorsa elettorale.
Ciò che invece accomuna i due casi – che li getta in un contenitore mediatico-giudiziario apparentemente unico – è la sincronia ostentata delle due maggiori Procure italiane contro i rispettivi municipi. Il ritorno alle grandi manovre della magistratura è certamente la scossa di assestamento più rilevante dopo il sisma-referendum (significativo, ieri, che la Procura di Arezzo abbia chiuso le indagini per bancarotta fraudolenta su Banca Etruria escludendo per il padre di Maria Elena Boschi dalla lista di 21 accusati). Le manovre si svolgono, peraltro, quasi alla luce del sole.
Martedì 13 si sono ritrovati al Cnel il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, e quello di Roma, Giuseppe Pignatone, assieme al presidente dell’Anac, Raffaele Cantone e al vicepresidente dela Csm, Giovanni Legnini. Al centro di un appuntamento di studio, la situazione del Paese sul versante della corruzione e criminalità economica, la “percezione pubblica” e le “misure di reazione”. Nei fatti è parsa una conferma visibile di come la caduta di Matteo Renzi sia destinata a produrre riequilibri non trascurabili all’interno dell’ordine giudiziario e nei suoi rapporti con politica e istituzioni.
Negli ultimi “mille giorni” Cantone e Legnini i sono stati i garanti di un equilibrio non sempre facile fra Renzi e magistratura. Con l’Anac l’ormai ex premier ha provato a rendere più “politico-governativa” e meno “giudiziaria” la questione morale e la lotta alla corruzione. Legnini – appoggiato anche dall’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano – si è invece impegnato Csm a superare il protagonismo giudiziario e le frequenti forzature ideologiche del ventennio berlusconiano (ancora delle ultime ore è l’annuncio della ripartenza del processo “Ruby-ter” contro il Cavaliere). La fine di una fase politica porta ora con sé, quasi inevitabilmente il ritorno in campo delle Procure e un aumento delle dinamiche interne a una magistratura un po’ “compressa” dal renzismo (basti pensare alle agitazioni dentro e attorno l’Associazione nazionale magistrati, presieduta del milanese Piercamillo Davigo)
La nomina di Greco a Milano -vicino a Magistratura democratica, ma con fama operativa di laico e pragmatico – è parsa peraltro rappresentare uno degli esiti più compiuti dei “mille giorni”: anche se la fine del mandato di Edmondo Bruti Liberati è stata connotata dall’inedito scontro interno alla Procura di Milano con Alfredo Robledo proprio sulla conduzione delle indagini sulla costruzione delle strutture dell’Expo (non a caso la nuova iniziativa contro Sala parte è partita dalla Procura generale di Milano). Non era comunque stato casuale, da parte di Renzi, il riconoscimento pubblico della “responsabilità” della Procura ambrosiana ai fini del successo dell’Expo. Non può dunque sorprendere neppure che gli aggiustamenti politico-giudiziari in corso possano provocare qualche rebound contro Sala in quello che resta l’hub italiano di finanza e impresa (nelle ultime concitate settimane pre-referendum le cronache hanno registrato anche un’inedita escalation mediatico-giudiziaria contro il presidente emerito di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli).
Mentre ali della magistratura accelerano nel ridisegno delle mappe interne ed esterne, non stupisce nemmeno che la Procura di Roma abbia ripreso l’offensiva contro la corruzione politica a Roma. Un procuratore con background diverso da quello milanese – Pignatone è giunto in Piazzale Clodio da Reggio Calabria – ha raggiunto la ribalta con l’inchiesta “Mafia Capitale”: un pericoloso teorema secondo i suoi detrattori; per altri un tentativo tanto coraggioso quanto ambizioso di inquadrare inquinamenti politici e criminalità organizzata in una cornice unica, una sorta di “Mani pulite 2.0”.
E’ comunque presto per capire – soprattutto nel confronto interno alla magistratura – quali orientamenti sostanziali matureranno e soprattutto prevaranno (aspetto non banale sarà anche il ruolo futuro del ministro della Giustizia Andrea Orlando nel Pd). L’attacco simultaneo ai due Sindaci d’Italia potrebbe presto rivelarsi una “grande esercitazione giudiziaria”: non l’inizio vero e proprio di una nuova guerra fra giudici e politici. Non un “pronunciamento” unitario della magistratura verso l’intera classe politica. Non un test dagli esiti uguali a Milano o a Roma.