La prima mossa spetta a Bersani. Ma solo perché, solo sulla carta, il centrosinistra è la prima forza politica del Paese. Altra cosa sarebbe stato poter dire di aver vinto le elezioni. Ma così non è stato, e il Pd si trova a dover fare i conti con l’M5S e il Pdl. Prima con l’M5S, però. Sembrano queste, almeno finora, almeno all’apparenza, le intenzioni di Bersani. Che, nei confronti del partito del comico genovese, ha manifestato un’iniziale apertura, invitandolo a prendersi le proprie responsabilità. Si tratta, in ogni caso, dei primi tentativi di perlustrazione. Un’operazione, più che altro, di avanscoperta volta a capire se sussistono le condizioni per uscire dall’impasse. Il costituzionalista e senatore in uscita del Pd Stefano Ceccanti ci svela tutte le variabili in gioco.
Anzitutto: il centrosinistra era destinato alla vittoria. Quali sono gli errori che lo hanno portato ad un simile risultato?
Vi è stata un’evidente curvatura identitaria da vecchia sinistra e non solo in campagna elettorale; è un trend che dura da anni, essendo stata erroneamente abbandonata l’idea del partito a vocazione maggioritaria, capace di parlare a tutti, per rassicurare solo l’elettorato tradizionale. Vi è stata una breve parentesi con le primarie, intorno alla mobilitazione legata a Renzi che, sia pure con varie contraddizioni, aveva segnalato tutti i limiti di quella impostazione; ma è stata rapidamente riassorbita.
Ora quali sono le intenzioni di Bersani? Dovrebbe dimettersi?
La priorità assoluta è ora quella di contribuire alla nascita di un governo per l’Italia, il partito viene dopo. Guai a perdere la gerarchia dei problemi.
Un governo con chi, dato che il centrosinistra non è in grado di originarlo da sé?
Che la coalizione più votata assuma per prima la responsabilità di indicare una soluzione mi sembra giusto. Non mi sembra però che ci siano condizioni per accordi politici credibili con nessuna delle altre due coalizioni.
Quindi? E’ possibile un governo di scopo sulla falsariga del “modello Sicilia”?
In Sicilia il Presidente è eletto direttamente, si insedia e poi cerca i consensi sul suo programma, non ha bisogno di una fiducia iniziale. Invece, a livello nazionale, il presidente della Repubblica nomina un governo quando questo può credibilmente avere una maggioranza sulla fiducia iniziale. Grillo non è disponibile a votarla. La strada è quindi obiettivamente preclusa, almeno allo stato attuale.
Se il Pd non si allea né con Berlusconi né con Grillo, che alternative restano?
Le tre coalizioni hanno distanze tali da precludere governi politici che derivino da intese a tre o anche a due. Diverso il caso di un nuovo esecutivo tecnico che il presidente Napolitano potrebbe proporre con un programma minimo di riforme elettorali e costituzionali (in particolare per non appendere il governo ai risultati di due Camere diverse) per tornare rapidamente al voto con la ragionevole aspettativa di un risultato chiaro.
L’eventuale appoggio di Monti al centrosinistra non sarebbe sufficiente per garantire la nascita di un esecutivo. Il professore della Bocconi è quindi totalmente tagliato fuori dalla scena politica?
Credo che il Pd debba tenersi in raccordo con Monti che, però, in questa fase non è numericamente decisivo.
Cosa succede se non si riesce a eleggere il governo e neppure il presidente della Repubblica?
In assenza di un nuovo governo in grado di prendere la fiducia si torna a votare. Sul Presidente della Repubblica credo invece che un accordo sia più fattibile, trovando nella coalizione di maggioranza relativa una personalità votabile anche dalle altre due. Per facilitare questa intesa il clima sarebbe nel frattempo rasserenato se le altre due cariche di garanzia, le presidenze delle Camere, fossero affidate a personalità delle altre due coalizioni capaci di ottenere i consensi altrui.
(Paolo Nessi)