Al Meeting di Rimini si sono confrontati su alcune possibili importanti riforme il ministro della Giustizia, Angelino Alfano e il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Nicola Mancino. È confortante che il ministro e il rappresentante dell’organo di autogoverno della magistratura si siano entrambi impegnati per iniziare una stagione di riforme all’insegna del confronto e del dialogo, pur evidenziando i nodi più difficili da sciogliere e le reciproche posizioni, ovviamente contrastanti.
In particolare si è posto il problema della riforma del Csm. Si è concordato sul fatto che la riforma dello stesso sia necessaria: le critiche più diffuse riguardano la sostanziale incapacità di esercitare l’autogoverno, soprattutto per il meccanismo delle correnti interne alla magistratura, che impedisce il reale controllo da parte degli eletti (vista la maggioranza dei membri togati in seno al Csm) nei confronti dei loro elettori e la sempre più marcata funzione “oppositiva”, attraverso l’istituto dei pareri liberi, all’iniziativa legislativa.
Il senatore Mancino si è detto aperto ad una possibile riforma che, tuttavia, dovrà rispettare il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati e si è proclamato nettamente contrario all’ipotesi di due Csm, uno per i magistrati giudicanti e uno per quelli inquirenti; il ministro, viceversa, ha ipotizzato una divisione dei due Csm, come logica conseguenza del criterio ispiratore delle riforme in cantiere, ossia quello di una perfetta parità tra accusa e difesa e l’esaltazione del giudice terzo, oltre a ribadire il suo giudizio negativo circa «l’esasperato correntismo», senza però proporre soluzioni al riguardo.
Ci permettiamo sul punto di fare la seguente osservazione: al di là delle possibili soluzioni che, allo stato, restano a livello di meri proclami, atteso – come ha evidenziato anche il sen. Mancino – che non vi è una proposta precisa su cui discutere, non si può dimenticare che si tratta di una riforma di rango costituzionale che per essere fatta prevede, ai sensi dell’art. 138 della Costituzione, la maggioranza dei due terzi di ciascuna delle due Camere in seconda votazione, per non essere sottoposta al meccanismo del referendum popolare (che su riforme conflittuali come questa deve essere dato per scontato). Realismo, impone, pertanto, di costruire un largo consenso, che non può prescindere da un accordo di massima con una parte importante dell’opposizione: ma l’attuale opposizione, alleata di fatto con l’Idv di Di Pietro, che fa del giustizialismo e della conservazione dello status quo dell’assetto organizzativo della magistratura la propria bandiera, rende vano e fantasioso ogni tentativo. Vedremo se l’eventuale cambio al vertice della segreteria del Pd permetterà di mettere le basi per questa riforma, nodo cruciale nell’amministrazione della giustizia.
Con riguardo alla riforma del processo penale, ribadito il concetto da parte di entrambi gli interlocutori che il parere del Csm non è vincolante (ma non per questo non influente), ci pare che almeno due punti debbano essere rivisti: quello che estende i motivi di astensione e di ricusazione del giudice anche a «giudizi espressi fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie nei confronti della parti del procedimento», il quale pare rispondere più ad una problematica contingente che non a un reale ostacolo all’imparziale funzione giudicante del magistrato ed inciderebbe non poco sul principio del giudice “naturale”; e quello dell’ampliamento dei poteri della Polizia giudiziaria e il ridimensionamento della sua dipendenza dai Pubblici ministeri.
Questo secondo punto è assai delicato, perché inevitabilmente un maggior potere di indagine alla Pg, svincolata dall’iniziativa e dal controllo del Pm, significa, nel concreto, ancorché non si dica in modo esplicito, mettere nelle mani dell’esecutivo, da cui dipendono le Forze dell’ordine, la scelta di indirizzare l’attività di indagine; significa, inoltre, il venir meno della garanzia del controllo del Pubblico ministero sull’operato della Pg che, al di là di quanto affermato dal ministro, non sempre è all’altezza di gestire autonomamente l’attività investigativa.
Il Csm ha osservato come questa proposta di modifica dell’assetto dei rapporti tra Pg e Pm contrasti con gli artt. 109 e 112 della Carta costituzionale: il rilievo è discutibile, tuttavia, proprio per l’evidente delicatezza della proposta, che va ad incidere su garanzie di carattere costituzionale, tra cui il principio di obbligatorietà dell’azione penale (ormai ridotto, nei fatti, a mera petizione di principio) e che evidenzia la necessità di una scelta di campo sul punto, è indispensabile trovare una mediazione fra le diverse sensibilità, per giungere ad un punto di equilibrio condiviso.
È stata posta anche la domanda sulla necessità di una riforma della legge professionale dell’avvocatura (in vigore dal 1930 e del tutto inadeguata alle esigenze attuali della professione): il ministro ha preso atto che le riforme del processo civile e di quello penale non miglioreranno più di tanto l’attuale situazione di collasso della giustizia, se non saranno accompagnate da una profonda riforma dell’avvocatura. Oggi la categoria professionale forense, che ha raggiunto numeri stratosferici, per la mancanza di selezione e di controllo sulla deontologia e la formazione rischia di impattare sempre più negativamente la buona amministrazione della giustizia: è necessario, pertanto, ribadire il concetto di professione protetta, per i delicati interessi che tratta e, attraverso un meccanismo di selezione più serio e all’inizio della scelta dei neolaureati, renderla effettivamente “protetta”, nell’interesse dei cittadini e della giustizia (le proposte di riforma non mancano).
Un’ultima osservazione: il ministro ha dichiarato che per risolvere il cronico problema del sistema carcerario non ricorrerà al solito provvedimento di indulto, ma cercherà di creare più capienza carceraria e punterà sul lavoro per i carcerati, al fine di abbattere la recidiva.
L’intento è lodevole e l’esperienza dimostra che, effettivamente, il lavoro per i carcerati è importantissimo e, se ben guidato, abbatte significativamente la recidiva: costatiamo, però, che nell’ultima finanziaria del 2009 sono stati tagliati del 43% i fondi destinati al lavoro interno dei carcerati, gestito dall’amministrazione penitenziaria. è auspicabile che l’intento annunciato dal ministro, che condividiamo, non sia poi smentito nell’anno a venire da scelte concrete in senso contrario.