Mentre l’Eurogruppo decideva se dividere in più rate la nuova tranche di aiuti alla Grecia, i mercati viaggiavano relativamente sereni. Spread calmo, Borse in rialzo, nonostante la locomotiva Germania facesse registrare un crollo dell’export (-3,2% anno su anno, il peggior dato da novembre 2009 e con un -9,6% del dato delle esportazioni verso l’eurozona, area che conta per il 40% dell’export totale di Berlino) e un ritorno in negativo sempre anno su anno della produzione industriale, in netto contrasto con i dati di aprile. Certo, il contemporaneo aumento delle importazioni certificava la presenza di una forte domanda interna, ma il Dax che festeggia con un rotondo +2,5% ci dice che qualcosa non va, che qualcosa potrebbe incepparsi, da un giorno all’altro. È nelle cose. E, soprattutto, è nei fondamentali.
D’altronde, nonostante il doping della Fed attutisca ogni colpo facendolo sembrare un buffetto, di vittime da inizio anno la crisi ne ha reclamate: i bond sovrani giapponesi, l’oro, il debito dei paesi emergenti e non ultimo i Treasuries statunitensi a 10 anni, che venerdì per un breve lasso di tempo hanno sfondato quota 3% di rendimento, salvo ritracciare al 2,72%. Non solo, il Bund a 10 anni segnava l’1,72%, ragione per la quale il nostro spread è rimasto basso, nonostante l’economia reale del nostro Paese veda morire quotidianamente aziende come fossero mosche.
Ripeto, la correzione è nelle corde e il mercato punirà questo eccesso di liquidità, questo stimolo infinito e che crea dipendenza. Pensate all’Europa. Fino alla scorsa settimana, quando Portogallo e Grecia hanno riportato l’attenzione sulla crisi dell’Ue, la stamperia Usa aveva garantito un effetto stabilizzazione: tutto appariva risolto. Non è così e due variabili potrebbero far rovinosamente precipitare il castello di carte: il crollo del mercato obbligazionario o la trasformazione di quello azionario in una bolla gigantesca, a fronte di un’economia reale Usa che non conosce alcun tipo di ripresa reale. Chi tra aprile e giugno dello scorso anno avesse scommesso sul debito sovrano di Portogallo, Spagna, Italia ma anche Grecia o su titoli azionari di quei Paesi avrebbe fatto l’affare del secolo, un rally infinito che per Atene si è addirittura concretizzato in un aumento del 100% dai minimi. Oggi, però?
Gli investitori professionisti hanno già ridotto le loro posizioni, forti di esperienza, lettura dei dati macro e soprattutto di un precedente: il 1987. In quell’anno, il rally fu del 40% tra gennaio e agosto, ma poi, in due mesi, il crollo fu della stessa portata: guadagni bruciati in 60 giorni. E, purtroppo, tutti quanti sappiamo che questo bull market garantito dalla Fed è durato anche troppo, la correzione è inevitabile. D’altronde, le analogie sono sconvolgenti. Incertezza del quadro macro-economico, alta propensione alla leva, tassi di interessi in salita e volatilità sui mercati monetari sono le stesse condizioni che portarono al crash del 1987. Come si concretizzò quel tonfo? Lo spiegano senza bisogno di troppi commenti questi due grafici.
Certo, oggi la mole di denaro messa in circolo dalla Fed, ma anche dalle altre banche centrali, potrebbe evitare una correzione così netta, potrebbe attutire l’impatto, ammorbidire la curva di inversione, ma leggere quanto scritto nella ricerca proprio della Fed intitolata “A brief history of the 1987 stock market crash with a discussion of the Federal Reserve response”, diciamo che fa riflettere. Ecco un estratto: «Durante gli anni che hanno preceduto il crollo, i mercati equity avevano postato significativi guadagni. L’incremento dei prezzi aveva superato la crescita dei guadagni e ridimensionato la ratio price/earning. Alcuni commentatori misero in guardia sul fatto che il mercato era divenuto sopravvalutato… Più importante ancora, i mercati finanziari videro un incremento dell’uso di strategia di “program trading”, dove computer furono settati per trattare velocemente un grosso numero di titoli, soprattutto in certi indici, ogni qual volta ci si trovava in detereminate condizioni tipo… L’outlook macroeconomico durante i mesi che portarono al crollo era diventato in un qualche modo meno certo. E i tassi di interesse stavano salendo a livello globale».
Già, un bel deja vu, non c’è che dire. Il problema, come vi anticipavo, è che la velocità con cui sui mercati si sta vendendo debito statunitense a lungo termine, facendo di conseguenza salire i rendimenti, potrebbe giocare un ruolo di offsetting rispetto alla volontà della Fed di rallentare le politiche di stimolo, visto che l’ultimo dato sulla disoccupazione negli Usa parlava del 7,6% e che Bernanke aveva detto chiaramente che una volta raggiunta quota 7% si sarebbe chiusa o ridimensionata la stamperia di Stato. Io penso che sia un gioco delle parti, visto che passare dal 2,5% al 3% in meno di dieci giorni è davvero troppo anche per un mercato in bolla come quello attuale: qualcuno sta vendendo debito per garantire un alibi alla Fed per continuare a stampare ed evitare la figuraccia di doversi rimangiare la parola data il 22 maggio scorso.
Una cosa però è certa, supposizioni a parte: in giugno il Giappone è stato net seller di assets esteri, con le equities Usa che hanno pesato per 371 miliardi di yen su un totale di vendite di 417 miliardi. Fino alla scorsa settimana, infatti, era il 2,5% la soglia di timore per chi deteneva debito statunitense a lungo termine, ora è il 3%, ma non pare che uno scostamento simile abbia avuto un impatto sull’economia Usa. Follia. Siamo ai massimi di rendimento dall’agosto 2011, più di 100 punti base di spread da inizio maggio, quando i mercati cominciavano a prezzare il cosiddetto “taper” della Fed, ovvero la possibilità di riduzione o eliminazione del programma di acquisto da 85 miliardi di dollari al mese. Addirittura, ieri Goldman Sachs si è detta certa che il decennale Usa toccherà il 4% di rendimento entro il 2016.
Un guaio e non da poco, perché quando gli yields salgono troppo e troppo in fretta, vanno a impattare pesantemente sul mercato immobiliare, visto che i rendimenti sui Treasury hanno un effetto diretto sui mutui a tasso fisso. E con il real estate ancora distante da una ripresa credibile, questo è un rischio che la Fed non può permettersi: vediamo domani così dirà al mondo Bernanke nel suo discorso. Sarà un caso, ma dopo il sell-off di venerdì, in scia al buon rapporto sull’occupazione, ieri sono tornati gli acquisti sui Treasuries, con il rendimento del decennale in calo dal 2,7275% al 2,702%. I grandi players hanno annusato il rischio. E si muovono di conseguenza, offrendo alla Fed un alibi che non si può rifiutare, affinché l’orchestra continui a suonare ancora un po’ sul ponte del Titanic.