Se si cerca sull’enciclopedia Treccani la voce Mediobanca, emerge che essa si configurava essenzialmente come un istituto di credito industriale, la cui operatività dipendeva dalle filiali delle tre banche di interesse nazionale (Bin) – Credit (Credito Italiano), Comit e Banco di Roma – sia per la raccolta (attraverso i libretti di deposito), sia per la prima selezione della clientela industriale da affidare alle cure dell’istituto. Mediobanca operò come istituto di credito a medio termine e fornì finanziamenti soprattutto a grandi imprese (per oltre due terzi dei crediti concessi). Essa poteva contare sulla vasta rete degli sportelli delle tre Bin e pertanto fu in grado di assolvere la funzione di “ponte” tra le grandi imprese e il mercato dei capitali.
Il declino di Mediobanca iniziò con gli anni -novanta del secolo scorso, con la nuova legislazione bancaria, con il ritorno alla banca universale e con la privatizzazione delle tre banche di interesse nazionale. Una volta collocate in borsa parte delle azioni e determinato un nuovo azionariato privato, la Comit, il Banco Roma e il Credito Italiano non furono più istituti di credito che, come prima, erano definiti di “interesse nazionale”, ma divennero dei nuovi protagonisti sul mercato bancario nazionale e, ovviamente, non collocarono più in via esclusiva le obbligazioni di Mediobanca, determinandone il lento e inesorabile declino.
Il medesimo schema, appena descritto, è quello della Cassa depositi e prestiti. La sua missione istituzionale, finanziare la crescita del Paese, è garantita dalla raccolta postale: Buoni fruttiferi postali e Libretti di risparmio postale, collocati da Poste Italiane attraverso gli oltre 14mila sportelli dislocati su tutto il territorio nazionale. Cassa depositi e prestiti è oggi, pertanto, un operatore di lungo termine, esterno al perimetro della Pubblica amministrazione, nel finanziamento delle infrastrutture e dell’economia del Paese.
Dalla semestrale al 30 giugno 2013, disponibile on line, la raccolta postale era pari a 236 miliardi di euro, di cui 133,540 miliardi di Buoni postali. Dai recenti comunicati stampa relativi alla privatizzazione di Poste Italiane, invece, viene evidenziata una raccolta al 30 novembre 2013 di 317 miliardi di cui 211 miliardi di Buoni postali, superiori quindi di quanto a disposizione della Cassa depositi e prestiti.
Poste Italiane e Cassa depositi e prestiti nascono insieme, un legame inscindibile ha permesso il loro sviluppo e, di riflesso, quello dell’Italia. Esiste un accordo per la distribuzione e il collocamento dei Buoni postali e dei libretti fra la stessa Cdp e Poste, contratto che ora è in corso di rinnovo – prima dell’annunciato collocamento – per i prossimi cinque anni. Poste Italiane verrà privatizzata e collocata al pubblico, anche a investitori istituzionali, italiani e esteri: essi diventeranno azionisti di Poste Italiane e le azioni verranno negoziate alla Borsa valori.
I media e le fanfare del caduto Governo Letta hanno evidenziano la bontà dell’operazione: dalla privatizzazione si incasseranno 4 miliardi per il 40% del capitale, un affare! Si potrà ridurre il debito pubblico di pari importo, cioè pagare gli interessi sul nostro debito per appena due mesi, ma è un affare! Ci si deve domandare forse per chi. Non dimentichiamo che la società Poste Italiane – una volta privatizzata – sarà soggetta alle regole capitalistiche di mercato e a quelle del legislatore. Massimizzazione del valore per gli azionisti, profitto, conflitto di interessi, trasparenza e liberalizzazioni saranno il nuovo lessico del management; solidarietà e sussidiarietà verranno confinate.
Con buona probabilità gli azionisti saranno anche banche e assicurazioni, concorrenti di Poste Italiane nel segmento finanziario. Ma cosa succederà fra cinque anni quando scadrà il contratto fra Poste Italiane e Cdp per il collocamento dei Buoni postali, oggi così strategico per la stessa Cassa depositi e prestiti? Se il mercato è libero, altre istituzioni – magari concorrenti, ma azioniste a seguito del collocamento – evidenzieranno un regime di monopolio non più sostenibile perché contro le leggi di mercato della libera concorrenza, viziato con le parti correlate e cioè Cassa depositi e prestiti. Chiederanno e imporranno a Poste di predisporre quindi un bando di gara aperto al mercato, nel rispetto della trasparenza, suddividendosi quindi le quote di mercato. In poche parole, verranno collocati anche i loro prodotti finanziari, i loro buoni postali.
Il rischio è concreto: Cassa depositi e prestiti può trovarsi nelle condizioni di non essere più – come è indicato nel suo oggetto sociale – motore per lo sviluppo del Paese, né ultima istituzione a soccorso della nostra industria, delle nostre infrastrutture. Non avendo più un rapporto esclusivo con la distribuzione e collocamento dei Buoni postali e dei libretti postali non potrà più essere garantita nel funding come ora. Il risparmio postale è attualmente l’ultima isola incontaminata di un Paese di risparmiatori. Sarà una prateria aperta e terreno di conquista di operatori privati italiani ed esteri: dividi et impera.
Quando per Mediobanca – pivot per oltre 50 anni della grande industria privata italiana – iniziò il declino, una volta perso quel legame simbiotico con le banche distributrici dei suoi prodotti finanziari, in un gioco di specchi, declinò la nostra grande industria privata: Montedison, Pirelli, Orlando, Lucchini e Fiat solo per fare qualche esempio. Dopo la privatizzazione di Poste il destino di Cassa depositi e prestiti sarà a rischio e con essa la nostra grande industria pubblica, di conseguenza l’intero Paese: senza industria, infatti, non c’è futuro. Sarebbe forse il caso che il nuovo governo e il suo leader Matteo Renzi meditassero su questa privatizzazione: non sembra – ricordando la recente storia economica finanziaria – nel nostro interesse, nell’interesse dell’Italia.