Caro direttore,
nel suo articolo Giovanni Cominelli mi accusa di essere l’erede inconsapevole del moralismo e del giustizialismo che vive ancora dentro il Pd a causa della persistente ereditarietà berlingueriana, che in nome di una diversità comunista auspicava un “governo degli onesti”. Conosco bene Giovanni Cominelli. Ho letto il libro in cui racconta la sua complessa e drammatica vicenda di militante della sinistra da cui ha preso le distanze nel 2002. Il libro è un’appassionata testimonianza che va come tale rispettata. Perciò non mi preoccupo di rispondere a tutte le argomentazioni con cui si prova a demonizzare tutto ciò che appartiene alla storia del Pci e della sinistra di questo Paese. Mi limito a sottolineare che io personalmente, e sicuramente anche il Pci finché è rimasto in vita, non siamo mai stati giustizialisti e posso testimoniarlo direttamente per essere stato membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto da Giorgio Bachelet, assassinato dalle Br proprio negli anni più terribili del terrorismo dilagante.
Già nel 1987 in un libro edito dal Manifesto avevo condannato esplicitamente il giustizialismo e l’esaltazione del ruolo supplente della magistratura. Ho scritto anche che la curvatura radicaleggiante e laicista (non laica) che una parte della sinistra aveva assunto negli ultimi anni era una degenerazione vera e propria che aveva fatto perdere di vista la questione centrale del lavoro e dell’occupazione.
Debbo ritenere quindi che Cominelli col suo intervento ha voluto colpire un’altra parte della mia riflessione sulla quale desidero tornare, perché penso che sia giusto considerarla – anche oggi che si prova a fare un governo di larghe intese – un tema di riflessione attuale. Credo che le affermazioni che hanno suscitato l’aggressiva risposta di Cominelli siano sostanzialmente quelle che riguardano il rischio di “eversione” che Berlusconi e Grillo rappresentano per il governo democratico. Il mio giudizio non si basa su questioni moralistiche, che lascio ad altri coltivare con assiduità, ma sull’oggettività di una situazione in cui due forze politiche, che hanno ottenuto quasi il 60 per cento dei voti, vivono sotto l’imperioso comando di un capo che non ammette dissenso e che non ha dato alcuna parvenza democratica alla vita del proprio movimento.
Sono il primo a ritenere che il centrodestra può legittimamente aspirare a governare questo Paese, ma credo che non possa essere guidato da Silvio Berlusconi. Sebbene la sua condotta di frequentatore assiduo di giovani donne retribuite insieme a Lele Mora ed Emilio Fede, e per di più la tendenza a promuoverne alcune come rappresentanti del Polo della Libertà siano faccende che non riguardano il pernicioso moralismo che in certi casi è stato evocato, ritengo tuttavia che si tratti di una questione che attiene all’abuso delle istituzioni democratiche per interessi personali.
Trovo anche che la continua produzione di leggi ad personam sia una palese violazione del principio di eguaglianza davanti alla Legge che dovrebbe essere incarnato anzitutto dal Presidente del Consiglio. Non credo che si possa ignorare la quantità di episodi che riguardano la corruzione politica dei vari Scilipoti di turno che non è immorale ma semplicemente illecita.
La condotta di Berlusconi dopo le elezioni mi conforta in queste preoccupazioni: lotta aperta ai magistrati che lo hanno inquisito, accusati di essere veri e propri terroristi, aprendo uno scontro con la magistratura in generale che ha di fatto impedito ogni serio discorso sulla riforma della giustizia. L’assedio alle sedi giudiziarie dei suoi seguaci più fedeli e le invettive che egli stesso ha pronunciato nel comizio di Bari, dovrebbero rendere indigesto a tutti gli italiani un governo espresso in realtà da un solo personaggio che ama presentarsi come il capo indiscusso di una forza politica che vive al di fuori di ogni regola democratica per la selezione dei candidati e per la definizione dei programmi.
Sul piano opposto, ma con le stesse caratteristiche, considero anche la coppia Grillo-Casaleggio obiettivamente portatrice di un virus eversivo che si manifesta sempre più evidentemente con atti di aggressione verbale e vere e proprie manifestazioni intimidatorie. Anche in questo caso non voglio estendere questo giudizio all’intero corpo degli elettori 5 Stelle, che hanno in corpo rabbia e frustrazione per il modo in cui l’Italia è stata governata da una parte del ceto politico dirigente. Le urla di disprezzo, la reiterata affermazione che bisogna distruggere i partiti e ogni altro corpo intermedio per attuare una fantomatica democrazia digitale che crede di poter designare il presidente della Repubblica con 4mila voti telematici è a mio parere un delirio pericoloso per la convivenza civile del Paese.
Naturalmente queste considerazioni, che vorrei venissero considerate con attenzione anche da quelli che oggi, come Galli della Loggia e altri opinionisti, tendono a proporre un uso più decoroso della parola “inciucio”, non significano il rifiuto di una politica di alleanze, che sono stato abituato a fare nella mia esperienza di comunista e come era certamente possibile con la Democrazia cristiana, con la quale per dieci anni di attività politica in Parlamento e in Consiglio ho avuto modo di collaborare e stringere anche solide amicizie.
Le forze politiche guidate da Grillo e da Berlusconi rispondono a una logica di padre-padrone che non permette purtroppo di considerarle affidabili.
E veniamo adesso al mio giudizio sul Pd. Ho scritto che il partito democratico si è spaccato non tanto per beghe di potere ma perché non è mai nato un vero partito con una sola linea e una sola direzione di marcia. I franchi tiratori che si sono manifestati nelle elezioni presidenziali hanno mostrato chiaramente che all’interno del Pd ci sono due anime incompatibili: una più disponibile all’alleanza anche con Berlusconi, in una linea di continuità con ciò che rappresenta la seconda Repubblica, e un’altra invece più orientata ad esprimere l’antagonismo sociale che si manifesta in una crisi economica così drammatica e che richiede una profonda modifica della politica economica di Monti (il quale, sia detto per inciso, è il vero artefice di quanto sta accadendo in questi mesi). Anche nel caso del Pd si tratta di una costatazione oggettiva: quando ci sono cento franchi tiratori, un partito non esiste più.
Ciononostante considero questo fatto negativo per la democrazia italiana e mi sembrerebbe assai grave che alle prossime elezioni ci trovassimo di fronte allo scontro tra Grillo e Berlusconi.
In tutta questa vicenda non capisco che senso abbia rievocare in modo così sommario e approssimativo la storia del Pci. Ho lavorato personalmente con Berlinguer e posso invitare a leggere quanto da lui scritto sull’occupazione partitica dello Stato. Ho anche pubblicato un libro nella collana che dirigevo insieme al fratello Giovanni in cui venivano indicati tutti i fondi che Mattei aveva distribuito ai partiti, compreso il Pci siciliano. La questione morale non era per Berlinguer una questione giudiziaria ma uno stimolo a riscrivere le regole sullo statuto dei partiti e sulle incompatibilità.
Al punto in cui ci troviamo, cercando di dimenticare le ragioni per cui tutto ciò ha portato allo stallo del Parlamento, pare che Letta sia riuscito a varare il Governo evitando di attribuire dicasteri a quanti si sono distinti nelle manifestazioni di arroganza e violenza verbale. È ovvio che il prezzo più alto lo pagherà il Pd, non solo per gli errori di direzione di Bersani ma anche perché non si è più tenuto un vero congresso dove le idee non siano state annebbiate dall’ipocrisia delle false unanimità. Con le primarie c’era stata una parvenza di confronto che avrebbe potuto salvare il Partito democratico dal disastro e dall’autoannichilimento. Da allora però, a cominciare dalle candidature in deroga, è iniziata la fase della progressiva confusione dei linguaggi.