L’indisponibilità, dichiarata al Quirinale, da Maurizio Martina, da reggente della segreteria del Pd, a qualunque forma di partecipazione attiva alla formazione del nuovo governo, lasciando il cerino acceso nelle mani di Lega e M5s (“Tocca a loro dimostrare se sono in grado di governare”), sgombra il tavolo in casa Pd — almeno in questa fase delle consultazioni — dall’equivoco che il problema sia una differente posizione – trattativista anziché Aventino – tra Renzi e i renziani e tutti gli altri (la cui consistenza allo stato per altro non è chiara).
Il problema è piuttosto, in casa Pd, cosa fare del Pd. Se rilanciarlo o “andare oltre”. Candidandosi segretario per “fare la propria parte, in coerenza con il lavoro di reggente per costruire la stagione del nostro rilancio”, Martina si posiziona come riferimento di quelli (Orlando, Emiliano, Cuperlo, Franceschini: le radici ex Ds ed ex Margherita sopravvissute nel Pd di Renzi dei soggetti fondatori del Pd) che vogliono tenere il Pd agganciato alla famiglia della sinistra riformista in Europa per rilanciarne il ruolo reinserendosi, provando a scomporlo in prospettiva a proprio vantaggio, nel nuovo bipolarismo a trazione leghista e 5 Stelle che è uscito ben più che profilato dalle urne.
Tutt’altra l’opzione strategica di Renzi e di chi vorrà seguirlo. Che è l’opzione di “andare oltre”, verso un En marche italiota, agganciato al ruolo di Macron in Europa. Opzione che ha bisogno di due scenari. O il tanto peggio tanto meglio, per i partiti “tradizionali”, come soluzione della crisi di governo, e cioè che il “contratto alla tedesca” proposto da Di Maio si configuri come una diarchia Lega-M5s che tenga fuori Pd e Berlusconi sostanzialmente, cioè l’asse politico, voluto o obbligato, su cui si è retto il renzismo. Perché questo consentirà a En marche futura di raccogliere nelle sue fila quanto del post-forzismo, che il declino fisico e politico di Berlusconi e l’esito delle urne lascia sul terreno, non si consegnerà all’Opa di Salvini. Il Pd, in questa strategia, è un impiccio usurato anche come marchio. E Renzi è interessato, almeno quanto Salvini, a che l’Opa leghista riesca; gli consegnerà l’elettorato e il ceto politico forzista che non può e non vuole finire lumbard, in una pericolosa deriva sovranista antieuropea.
Ovvero che sia Salvini a doversi acconciare, fallito il tentativo della diarchia con Di Maio, e con essa la prospettiva di un’Opa su Forza Italia, a un governo proposto al centrodestra non sulla sua persona, e retto con il contributo in una qualche forma del Pd; il che di fatto significa che un Nazareno rinato dalla ceneri dei suoi contraenti metterebbe politicamente “in minoranza” Salvini all’interno di un governo di centrodestra, perché il 18% del Pd più il 14% di Berlusconi, è il doppio del 17% della Lega. Anche questo scenario governista, l’unico in cui potrebbe impegnarsi il Pd di Renzi, presuppone un En marche già in marcia anche se sotto il nome Pd.
Quale dei due sia il piano A o B nelle preferenze di Renzi non è evidente. Quel che è evidente è che entrambi gli scenari prevedono la fine del Pd. La candidatura di Martina prova a impedirla. Ma forse è troppo tardi. E poiché la politica anche del Pd, con la dismissione della “ditta” sul territorio, si fa nei gruppi parlamentari e nelle “fondazioni” di chi le ha, è molto difficile che lo salvi la prossima “assemblea” del 21 aprile. A meno che l’ago della bilancia non penda dal lato di quelli che vogliono “rilanciare” il Pd guadagnandosi l’agibilità politica per il sostegno a un governo di decantazione che rallenti sia il consolidarsi del bipolarismo Lega-M5s che di En marche. Per vedere se spunti un leader davvero in grado di rilanciarlo.