Rcs torna in apnea finanziaria e crolla in Borsa ai nuovi minimi. Il consiglio d’amministrazione presieduto da Maurizio Costa (che guida anche la Fieg) ha riconvocato l’assemblea per rinnovare una delega per un aumento di capitale da 200 milioni. Le banche creditrici (e Intesa Sanpaolo è anche azionista storica del Corriere della Sera) non giudicano stabilizzata l’azienda neppure dopo la cessione della divisione Libri a Mondadori. La perdita a nove mesi è ancora pesante e il nuovo chief executive, Laura Cioli, ha promesso una revisione del masterplan solo a Natale. Troppo poco perché le banche – messe esse stesse sotto pressione da mercati e regole Bce – possano permettersi di concedere moratorie ad aziendam sui debiti. Tanto più che Rcs è gruppo noto per un turnover disinvolto di top management e strategie. Mentre gli azionisti (da Fiat a Mediobanca, da Intesa a Della Valle a Urbano Cairo) fanno tradizionalmente melina nel provvedere di capitali un gruppo troppo spesso incappato in incidenti di percorso: ultimo l’acquisizione del polo spagnolo “El Mundo”.
Ma i conti al 30 settembre non hanno risparmiato altri big editoriali quotati. Due giorni prima di Rcs è toccato a Mediaset e a Il Sole 24 ore. Il Biscione ha sofferto in Borsa soprattutto la debolezza della raccolta pubblicitaria, ma anche le incertezze crescenti sullo sviluppo della scommessa sul calcio premium. Se il titolo resta relativamente apprezzato rispetto ai minimi di inizio anno è principalmente perché il mercato ritiene l’azienda-partito di Silvio Berlusconi una pedina sul tavolo di un probabile risiko della media-industry: soprattutto dopo il forcing di Vincent Bolloré su Telecom attraverso il 20% di Vivendi.
Il quotidiano controllato da Confindustria ha invece comunicato dati che condurranno prevedibilmente alla chiusura in rosso per il settimo esercizio consecutivo: nonostante il gruppo benefici da quattro anni di ammortizzatori pubblici e di categoria che riducono in misura sostanziale il costo del lavoro. Gli ammortizzatori sono stati concessi da Inps e Inpgi sulla base di accordi sindacali formalmente finalizzato a un’effettiva ristrutturazione del gruppo. Se il titolo, in questo caso, non è arretrato è stato per ragioni tecniche: il flottante è molto ridotto e il prezzo corrente è ormai virtualmente incomprimibile, a poco più di un decimo del valore di collocamento del 2006. I 300 milioni raccolti in Borsa in occasione della quotazione sono intanto stati consumati e con essi anche gli incassi di alcune dismissioni recenti: il consuntivo al 30 settembre segnala infatti proprio nel 2015 il passaggio a una posizione finanziaria netta negativa.
Costi pesanti e soprattutto rigidi; ricavi inariditi talvolta non più realmente ricercati sul mercato; troppi debiti e pochi capitali; azionisti non industriali per strategie lente, incerte o addirittura sbagliate: aree critiche più o meno accentuate a seconda dei gruppi, ma alla fine non circoscrivibili a singoli casi aziendali.
Da tempo ilsussidiario.netsegnala il procedere di una crisi sistemica nel settore editoriale nazionale. E non è certo un caso che assieme alla raffica di conti preoccupanti, la Fieg abbia disdetto in questi giorni il contratto nazionale di lavoro giornalistico. Un atto simbolico, senza effetti reali prevedibili, ha commentato la Fnsi, il sindacato unitario dei giornalisti: un atto tattico alla vigilia delle trattative per il rinnovo del contratto. È probabile, ma intanto è accaduto.
Il sovraccarico di baby-boomers nelle redazioni è certamente un problema, anche se non l’unico e forse neppure il più grave. Gli over 40 presentano un mix di costo inerziale e di produttività (soprattutto qualitativa, nel digitale) ormai incompatibile con ogni business model affermatosi nella millennial media industry. Il passaggio elementare alla distribuzione digitale (giornale tradizionale su tablet e smartphone o tv tradizionale su digitale terrestre) ha illuso i giornalisti di poter continuare a produrre come prima la loro informazione, agli stessi livelli di costo: e invece basta calcolare quale sia l’incasso reale odierno della stessa copia di un quotidiano o quello pubblicitario della stesso programma tv per venire drammaticamente smentiti. E gli stessi giornalisti sono spesso i primi a cogliere – ma privatamente – le nuova logiche dell’editoria digitale: quelle che premiano in termini di contatti (e quindi di incassi pubblicitari dalla Grande G) un contenuto postato gratuitamente in rete, meglio se su un social media.
Ma gli editori si sono illusi più dei giornalisti di poter gestire imprese editoriali sul mercato con un approccio non imprenditoriale: senza investirci, senza innovare, senza dare autonomia a management professionale, senza accettare fusioni e acquisizioni dettate dal mercato. La crisi finanziaria e la recessione (certamente più prolungate in Italia) hanno solo accelerato e reso più difficile una resa dei conti che – altre volte sul sussidiario – abbiamo paragonato a quella del settore bancario alla fine degli anni 80.
Allora le banche italiane erano non-imprese (per larga parte controllate dallo Stato), piccole, poco capitalizzate, cariche di personale molto oneroso, gestite con criteri para-burocratici, estranei alla ricerca di un profitto sostenibile nella competizione di prodotto. UniCredit, prima banca italiana, è tuttora considerata un caso da manuale di ciò che è accaduto in Europa da allora: nella crescita accelerata per fusioni e acquisizioni, in Italia e nella Ue; nella trasformazione organizzagtiva e tecnologica, nella ricerca di percorsi propri nell’asset management e nell’investment banking, anche se dall’esito non sempre riuscito. Eppure è un’avventura giù superata. E il futuro di UniCredit – anche se l’attuale top management continua a non convincersene – è in Fineco: una banca che all’inizio degli anni 90 non esisteva nemmeno ed è nata fuori dal perimetro UniCredit, per quanto innovativo.
Tra cinque anni – o anche fra due – dove pretendono di essere i gruppi editoriali italiani di oggi, cioè di ieri?