La crisi, come ormai ampiamente previsto, si sposta sempre più rapidamente dalla finanza all’economia reale, che scivola sulla china della crescita negativa con serie ripercussioni sull’occupazione. In alcuni casi all’assenza di lavoro (fatto di per sè grave) non si associa ancora la perdita totale del reddito grazie all’utilizzo della cassa integrazione, che ha coinvolto oltre 300 mila persone nell’anno con un picco del 500% a dicembre. In altri casi, soprattutto nelle Pmi, si è già in presenza di una perdita importante di posti di lavoro e di reddito.
Il 2009 sarà dunque duro, ma sarà anche l’occasione per rivedere il nostro modo di vivere, dall’approccio alle cose concrete alla concezione del lavoro. Si è dato troppo per scontato che il vantaggio competitivo acquisito dalle economie europee e americana potesse essere rinnovato all’infinito, ci si è convinti che i frutti di questo vantaggio (tenore di vita, tutele, etc.) fossero dovuti e che sarebbero durati per sempre. La resistenza a legare i redditi alla produttività, il non dare adeguato spazio alla contrattazione di secondo livello, la pretesa di una garanzia assoluta di reintegro per i lavoratori a tempo indeterminato da raggiungere per via giudiziale, la resistenza alla mobilità soprattutto nel pubblico impiego, ne sono alcuni esempi.
Oggi la realtà ci dice che era un’illusione, e non solo per effetto della crisi finanziaria. Bisogna ricominciare a combattere, cercare risposte alla crisi senza restare inermi in attesa che passi, anche perché i primi che ripartiranno (inteso come Paesi, ma anche come singole imprese) potranno guadagnare un posizionamento di medio periodo molto rilevante. A ognuno di noi, a ogni singola impresa, ma anche al singolo lavoratore, spetta il compito di vivere da protagonista questa sfida senza cadere nell’errore di ritenere che i cambiamenti micro siano ininfluenti per il risultato finale.
Non è un caso, andando a leggere la storia, che la risposta più imponente alla crisi della fine dell’impero romano fu la scelta di alcuni monaci di vivere secondo la regola dell’ora et labora. Essa ci appare oggi una scelta lungimirante che è stata capace di rinnovare la tradizione cristiana e occidentale, ma sul momento non pochi avranno pensato che essa era una fuga dalla realtà o nella migliore delle ipotesi un bel germoglio. Ma come si poteva immaginare che un germoglio così piccolo avrebbe generato il fusto su cui si è retta la costruzione dell’Europa?
Oggi come allora non si può continuare a ragionare secondo uno schema consolidato che prevede solamente variazioni a margine: siamo presumibilmente di fronte ad un nuovo paradigma che si sta formando e i cui contorni oggi non sono ancora definiti. In un mondo completamente rivoluzionato anche il concetto di welfare andrà rivisitato. Così come sul tema del lavoro si dovrà ripartire da una riflessione sul valore della persona, da cui discende il suo rapporto con il lavoro, con la ricerca del giusto benessere, con le tutele soggettive.
Se non si fanno i conti con questo scenario si rischia di continuare a mettere pezze nuove su vestiti vecchi. Tali mi appaiono le proposte di interventi di sostegno al reddito fatte dal Governo per tutti i cosiddetti precari, così come la settimana corta (cosa tra l’altro già parzialmente in essere nelle diverse forme di cassa integrazione utilizzabili). Inoltre la logica intrinseca di alcuni di questi interventi mi pare nasca più dall’idea dell’inamovibilità dei tenori di vita che dalla difesa del diritto al lavoro che, è bene ricordarlo, non è una variabile indipendente dai tassi di crescita e dalla capacità di generare ricchezza. In tal senso ha ragione Cazzola quando sostiene che vi è una tentazione, da parte di frange del sindacato e della sinistra, di rendere inamovibili i lavoratori ingessando aziende ed economia.
Tra le proposte oggetto di discussione credo che quelle più sensate e più capaci di incidere in termini strutturali (e quindi anche coerenti con la costruzione di nuovi paradigmi) siano quella di Ichino sui contratti di transizione, che trova punti di raccordo con la proposta di Sacconi di tutelare la persona attraverso azioni di politica attiva nella logica di una moderna flexsecurity e quella recentemente riproposta da Brunetta sull’innalzamento dell’età pensionabile. Se si va su questa strada diventa anche più sostenibile il principio dell’intervento immediato del Governo a sostegno delle famiglie e, con le dovute cautele, del sistema economico e finanziario.
Inoltre è bene non dimenticare che uno dei tasselli fondamentali da cui dipenderanno i nuovi assetti del mercato del lavoro (e soprattutto la nostra capacità di competere) è connesso al ripensamento dei sistemi educativi e formativi di cui da anni si fa un gran parlare, ma con scarsa capacità di rendere operative le scelte annunciate. Sullo specifico della formazione, se è ampiamente da condividere l’accento di Sacconi e di Ichino sul ruolo dell’impresa come soggetto facente parte del sistema educativo, più discutibile appare il generico attacco all’intero sistema formativo, in cui coesistono elementi di grande debolezza accanto ad altri di assoluta eccellenza. Se la formazione per meccanici della Ferrari è una grande scuola per tutti, altrettanto lo è quella recentemente avviata dall’accordo CNOS-Fiat per la formazione dell’intera rete delle officine. Anche qui occorre rifuggire da massimalismi e ideologie e guardare alla realtà nella sue forme variegate.
Inoltre credo che valga la pena continuare sulla strada dei servizi alla singola persona attraverso una valorizzazione della sua capacità di scelta; in questo ambito l’attività legislativa e la promozione di strumenti operativi quale quello della “dote” messi in campo dalla Regione Lombardia sono certamente un riferimento per tutto il Paese.
Il nuovo welfare, se vorrà sostenere la crescita del tasso di occupazione e contemporaneamente garantire un percorso lavorativo capace di non rendere marginali importanti fasce di popolazione, dovrà dunque connotarsi per un mix di politiche attive in cui è necessario coinvolgere l’intero sistema pubblico, il privato sociale e le stesse imprese.
Paradossalmente la crisi potrebbe essere l’occasione per attuare quella stagione delle riforme strutturali del mercato del lavoro sempre invocate, ma poi normalmente disattese. Questo mi pare essere oggi uno dei grandi campi in cui le diverse sensibilità riformiste potrebbero unire le forze dimostrando che la politica e il Parlamento sono ancora capaci di perseguire e amare il bene comune.