Esiste una sostanziale continuità tra Matteo Renzi e Massimo D’Alema: sono infatti ormai venti anni che il principale partito della sinistra italiana entra a Palazzo Chigi con i voti di transfughi di Berlusconi (da Mastella a Alfano) per poi uscirne in seguito al voto popolare. Identico è anche il rituale: le dimissioni arrivano dopo un test in cui il leader della sinistra “ha messo la faccia” ovvero fallisce il tentativo di legittimazione della maggioranza trasformista — le regionali del 2000, il referendum del 2016 — e quindi l’agonia finale attraverso un governo fotocopia (Giuliano Amato e Paolo Gentiloni).
E’ vero che i partiti dell’Internazionale Socialista sono in crisi in tutti i paesi europei e che otto anni di diarchia occidentale Obama-Merkel hanno partorito Donald Trump negli Stati Uniti e distrutto il bipolarismo in Europa, ma il caso italiano ha una sua indubbia specificità.
Il dissolvimento dei partiti di sinistra del dopoguerra all’inizio degli anni novanta è avvenuto in modo eccezionalmente traumatico, con inchieste giudiziarie che hanno travolto la sinistra di governo e con il crollo del muro di Berlino che ha travolto il più grande partito comunista occidentale protagonista della vita politica e culturale nazionale con posizione di guida nel sindacato e nel governo di città e regioni.
Ha ereditato la rappresentanza e la guida della sinistra italiana una leadership prevalentemente composta da ex sinistra Dc e da ex Pci, animata da un desiderio di rilegittimazione e di cooptazione in un quadro in cui la globalizzazione affermava il primato del potere economico e la rivoluzione tecnologica mutava le forme tradizionali di partecipazione, associazione e comunicazione con i partiti di massa sostituiti da movimenti cosiddetti “liquidi”.
E’ prevalso un post-comunismo neoliberale che accettava le tesi dominanti sulle privatizzazioni e la riforma dello Stato sociale e che si è proposto come “braccio buono” della globalizzazione: pensiero neoliberale più diritti civili. In pari tempo si è assistito a quella che storici come Massimo Salvadori ha chiamato “americanizzazione” della sinistra italiana, iniziata con il mettere insieme Kennedy e Berlinguer e quindi un parlare di “governatori”, “primarie”, fondazione di un “partito democratico americaneggiante” e finanche “Ulivo mondiale” a guida statunitense. Mettendosi sulla scia dei Clinton e Obama la leadership di sinistra ha impattato la crisi economica come sinistra-establishment.
Che il Pd abbia ora bisogno di una “pausa di riflessione” per analizzare seriamente errori del passato e definire prospettive del futuro stando fuori dal governo del Paese sembra ragionevole. Ma l’ostacolo è, appunto, la sinistra-establishment: dalla Lega delle Cooperative alle banche di Siena, Torino e Milano, dalla Cassa Depositi e Prestiti alla Rai, dalla Corte costituzionale al Consiglio superiore della magistratura, si snoda un insieme di gruppi di potere preoccupati di rimanere a galla anche affogando la ragion d’essere della sinistra e quindi pronti a sostenere il governo con Di Maio. Il capo politico del M5s da parte sua nell’intervista a Repubblica ha accreditato come probabile lo scenario di un’alleanza con il Pd se Salvini non rinuncia alla leadership del centrodestra e rimane alleato di Berlusconi e nel Pd si sono quindi moltiplicate le dichiarazioni di disponibilità. Ma di certo fino all’assemblea del 21 aprile il Pd vivrà in modo disordinato e non in grado di decidere.
L’unico punto fermo è quanto ha dichiarato Sergio Mattarella: nessuno ha vinto le elezioni, ci sono due partiti che hanno aumentato i loro voti, bisogna far maturare un’intesa programmatica. Quindi ha tenuto a ricordare gli articoli della Costituzione sui poteri di nomina del Presidente della Repubblica, e cioè se lo scoglio finale è chi fa il premier ovvero ci sono veti e impuntature, sarà il Quirinale a scegliere il capo del governo. In questo quadro è da tener d’occhio la campagna che una persona sempre ben informata e ben ispirata come il direttore de La Stampa, Maurizio Molinari, sta svolgendo da settimane a favore del colpo di scena di una donna per la prima volta a Palazzo Chigi.