Il nuovo attacco di Gianfranco Fini a Silvio Berlusconi, lanciato ieri dalla scuola di formazione di Gubbio, rimette in circolazione una questione centrale per la vita del Pdl: quello della democrazia interna. Al di là delle polemiche delle scorse settimane e dei riposizionamenti culturali del presidente della Camera, alla ricerca di un inedito profilo italo-sarkoziano da presentare sul mercato politico italiano, il vero nodo è probabilmente proprio quello della “circolazione delle élites” all’interno del partito. Era immaginabile che, presto o tardi, si sarebbe arrivati qui. Poiché Fini, se davvero vuole proporsi come leader alternativo a Berlusconi, è alla disperata ricerca di una via d’uscita dal pasticcio che egli stesso (e i suoi consiglieri, politici e intellettuali) ha generato.
Una cosa sicuramente vera ieri Gianfranco Fini l’ha detta: non ha nessuna aspirazione alla presidenza della Repubblica. Chi lo ha ipotizzato nelle scorse settimane lo ha fatto guidato da un eccesso di irrealismo. Se infatti Fini potesse contare sull’appoggio del Pd (ed è tutto da dimostrare), dovrebbe anche portarsi in dote un consistente pacchetto di voti dai banchi del centro-destra: e lì la sua popolarità non sembra particolarmente alta. Il suo vero obiettivo è quello di contare di più all’interno del partito, liberandosi dalla sindrome dell’eterno delfino che lo attanaglia da tutta la vita. La qual cosa, tradotta in termini politici, significa: più potere reale per sé e per i suoi. Come fare?
Esclusa la via del consenso elettorale, come un po’ furbescamente gli ha consigliato il direttore di Libero, Maurizio Belpietro. Questa strada sarebbe percorribile soltanto se Fini e i suoi potessero essere votati direttamente. Ciò sarebbe possibile solo in un sistema elettorale ove gli elettori avessero la possibilità di scegliere tra una pluralità di candidati. Così non è (in Italia si può discutere di qualunque cosa, ma al solo udire il termine “preferenze” da ogni parte si levano gli scudi), dunque la strada è impraticabile. Il sistema attuale, particolarmente apprezzato da Berlusconi, permette un controllo quasi esclusivo a chi detiene il potere all’interno degli schieramenti. Fino al punto da permettere di immaginare prima del voto i nomi che siederanno sugli scranni dei due rami del Parlamento. Come potrebbe in queste condizioni rendersi visibile un ipotetico consenso al nuovo corso finiano?
L’unica carta alternativa per far vedere la propria presunta forza elettorale sarebbe soltanto una: rompere il Pdl, ricostituire An e andare da solo alle elezioni. Si tratta di un’ipotesi attualmente remota, che però potrebbe trovare maggior forza se anche dalle parti del Pd si arrivasse a una clamorosa rottura tra correnti contrapposte.
L’unica strada reale, ad oggi, è dunque quella di provare a pesare di più all’interno del partito, domandando per l’appunto un’autentica democrazia interna, che permetta ai più capaci (e soprattutto a quelli capaci di creare consenso attorno a sé) di salire nelle gerarchie interne del potere.
Se però il sogno dell’autonomia finiana diventasse realtà, dentro o fuori le mura del Pdl, in forza di un rimescolamento di carte tra le oligarchie parlamentari, ci permettiamo di dubitare del risultato finale in termini popolari. Siamo davvero convinti, infatti, che una linea apertamente laicista sui temi “eticamente sensibili”, multiculturalista in fatto di immigrazione, apertamente ostile nei confronti del mondo cattolico, potrebbe risultare vincente sul mercato elettorale di centro-destra?
L’impressione è che Fini, come spesso gli è accaduto lungo tutta la sua storia politica, si sia infilato in un vicolo cieco, dal quale è difficile comprendere come potrà uscire. L’ultima volta che tentò la sortita (era l’autunno del 2007) fu ricacciato nell’angolo dall’ormai famoso “discorso del predellino” di Piazza San Babila, con cui Berlusconi annunciò la nascita del futuro partito unitario. I temi erano allora più o meno gli stessi. La differenza è che Fini si presenta oggi con un vestito culturalmente nuovo, apprezzato dai suoi ispiratori ma sicuramente indigesto a buona parte del suo elettorato.
In politica tutto è possibile, ed è possibile che saremo smentiti dai fatti. Ma forse il presidente della Camera questa volta ha fatto un passo troppo lungo: rischia di ritrovarsi solo, sostenuto soltanto dalla famiglia (ristrettissima) del Secolo d’Italia e della sua “Fondazione Fare Futuro”, con l’aggiunta di qualche intellettuale di complemento di provata fede laico liberale. Un po’ poco per pensare di essere un leader.