Et voilà! Con la domenica dei ballottaggi, il 19 giugno, termina il primo tempo di un lungo film, che segna il ridimensionamento, l’involuzione e la marginalità dell’Italia repubblicana. Dopo il declassamento economico, segue inevitabile l’impoverimento della classe politica dirigente.
I processi storici e politici sono sempre lunghi, ma se nessuno interviene la vecchia talpa scava implacabile sotto terra e poi spunta all’aperto con la sua testa. Dopo lo scardinamento programmato della prima repubblica, si assiste a un fenomeno incredibile: l’anti-politica e l’anti-sistema, il cosiddetto populismo, è diventato niente meno che l’asse trainante della nuova politica italiana. E’ diventato sistema. Quanti sono gli analisti raffinati che dovrebbero fare un attento esame di coscienza?
Alla faccia del valore solo amministrativo di queste comunali, il Pd ha convocato per venerdì una direzione nazionale dove si promettono l’uso del “lanciafiamme” e diverse polemiche da ballatoio, che sono già cominciate e che magari qualcuno cercherà di far passare per schermaglie democratiche.
Ecco comunque il nuovo quadro. Al momento, c’è un sindaco che si autoproclama rivoluzionario a Napoli, dove va a votare il 37 per cento degli aventi diritto: c’è una bella signora che si è insediata in Campidoglio a Roma con una valanga di voti, più del doppio del candidato del partito più forte d’Italia (il Pd) e che è pure vicepresidente della Camera; c’è un’altra affascinante signora, più giovane, che ha conquistato Torino alla faccia della tradizione sabauda, fatta poi da Fiat, dal partito dei lavoratori, dal sindacato, dalla classe operaia e terminata economicamente in filiale finanziaria per opera del risanatore Sergio Marchionne, che i lavoratori di Mirafiori li ha lasciati a casa.
Ironizzando con acume, ieri un noto giornalista spiegava di aver compreso di vivere nell’unico “quartiere rosso” di Roma: Parioli, l’antico borgo dei ricchi capitolini. Può capitare la stessa cosa a chi abita nel centro di Torino, in via Roma, o a Milano, in via Monte Napoleone. In periferia si preferisce votare “anti-sistema”, sperando di essere presto promossi a sistema.
La salvezza e la speranza dell’attuale traballante sistema dovrebbe venire da Milano, dove il candidato del premier si è aggiudicato il ballottaggio con un punto e mezzo di vantaggio, con mezzo milione di milanesi che non è andato alle urne, e da Bologna, dove tale Virginio Merola (non parente di Mario), sindaco Pd, dava l’impressione di aver stravinto contro una candidata leghista che ha superato il 45 per cento dei voti, nella città che è stata governata da Dozza e da Zangheri, per citare solo qualche nome.
Bisogna sempre essere positivi, per carità! Ma ci vuole una forza da leoni per non rendersi conto che ormai il malessere italiano (che è parte sicuramente di un malessere generale dell’occidente democratico) è arrivato quasi a un punto di non ritorno, di rottura e si affida sempre di più, quasi con una sorta di disperazione, al sempre “nuovo”, all'”onesto” che dovrebbe salvarci dalla “politica sporca”, composta da una “casta” irrecuperabile e quindi da “rottamare” completamente.
Nel giro di due anni e mezzo si è assistito a un fatto incredibile: il “rottamatore”, al secolo il premier e segretario del Pd, Matteo Renzi, è stato parzialmente rottamato nella capitale d’Italia e nell’antica città dove è nato uno dei padri nobili del Partito democratico. Se per caso il famoso referendum di ottobre andasse male, la “rottamazione” da parziale diventerebbe completa. Non è un’ipotesi campata in aria che, di fronte a una simile prospettiva, ci attenda una estate particolare, magari con qualche riforma della legge elettorale, magari su suggerimento della Corte costituzionale. E non è impossibile che lo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, possa suggerire una sorta di “spacchettamento” del referendum costituzionale in tanti referendum con quesiti comprensibili. Stiamo a vedere, perché la situazione politica sta diventando piuttosto rovente e chi deve accorgersene, se ne è già accorto.
Tuttavia, ripetiamo, il frutto politico amaro del 19 giugno è la naturale conclusione di un processo che è incominciato tanti anni fa, quando a colpi di privatizzazione “interessata” si vendeva quasi in blocco l’impresa italiana e nello stesso tempo si criminalizzava tutta la classe politica. Quasi quindici anni di svendite a perdere, di interessi internazionali puntati addosso, di poteri sbilanciati, di comunicatori che si improvvisavano e si alternavano come politici al governo del Paese. Il colpo della grande crisi finanziaria del 2007-2008 è stata la rivelazione della pochezza di un Paese che aveva rinunciato da tempo al suo ruolo, in nome degli “spacciatori” della rendita facile. La crisi ha fatto crollare tutto di colpo, anche il lungo piano partito sin dal 1992, e ha rivelato un’Italia fragile, impreparata, incapace di reagire, orfana di una classe dirigente degna di questo nome.
Il giovane “rottamatore” è in fondo solo l’ultimo dei venditori di sogni di un’Italia evaporata da tempo. Promette un alleggerimento della pressione fiscale di cui non si accorge nessuno, decide di dare 80 euro e poi di toglierli anche a quelli che sono più poveri, distribuisce 500 euro ai giovani con un “bonus” indecifrabile, lascia che tutti dicano la loro sulle pensioni, promette una continua “partenza” o “ripartenza” dell’Italia che non arriva mai e che deve sempre fare i conti con la deflazione. Sa benissimo, il giovane rottamatore rottamato, che il Pil italiano, se tutto fila liscio, ritornerà come quello del 2007 solo nel 2026.
Alla fine, il malessere sociale è straripato tra tasse, balzelli, “furti bancari”, promesse mancate, disoccupazione, crescita “zero virgola” e un’amministrazione pubblica con un apparato che farebbe invidia ai Borboni.
La famosa “rivoluzione di velluto” se la sono dimenticata tutti, ma la seminagione dell’odio verso la politica e i politici, in nome della mitica “società civile” ha fatto maturare i suoi frutti. Hanno vinto gli schematici qualunquisti che, consapevolmente o inconsapevolmente, sono sempre stati al servizio di alcuni poteri forti, vecchi e nuovi, privati e pubblici.
Come stupirsi che di fronte a una società così disarticolata e allarmata, anche una signora per bene, scelta in base alla designazione della mitica “rete”, assuma il ruolo di salvatrice di una città? C’è da augurarselo. Ma se si pensa a élite politiche o a classi dirigenti, si resta perplessi. Tutto viene fagocitato da una presunta democrazia diretta, perché quella rappresentativa non andrebbe più bene, non sarebbe più sufficiente. O forse gli italiani non l’hanno mai conosciuta fino in fondo la democrazia rappresentativa, sognando altri “traguardi”, pur avendone goduto gli aspetti migliori dopo l’ultima guerra.
Nei suoi ultimi anni di vita, Enrico Cuccia ripeteva qualche volta agli amici: “Guardando a destra e a sinistra, in Italia, vedo tanto fascismo”. Il grande vecchio ripensava con gratitudine a grandi statisti cattolici, a laici democratici, a riformisti socialisti di antica data e anche a quelli che resistettero in minoranza nel Pci. L’Italia aveva superato gli anni della ricostruzione e della guerra fredda grazie a questi uomini. Il “grande vecchio” era diventato pessimista sul futuro italiano, anche guardando all’andamento della grande impresa fin dal 1978. Poi pensò a un “quarto capitalismo” da potenziare. Alla fine, non sperava più e non aveva buone visioni del futuro italiano. Speriamo che si sia sbagliato. Certamente non si fidava ciecamente e disperatamente del “nuovo”.