Devo ammettere che le cosiddette élites, di qualsiasi latitudine, ideologia o colore, hanno compiuto un mezzo capolavoro. Anzi, forse si può levare il mezzo. Mentre in Italia ci trastulliamo fra salme di vecchi regnanti e nuovi furori anti-austriaci, qualcosa nel mondo è cambiato. Silenziosamente. Non tanto perché così poco importante da non lasciare traccia o segnalare presenza, ma, anzi, proprio perché dirimente, pressoché ignorato da quella stessa stampa che ogni giorno ci mette in guardia dal pericolo delle fake news. Donald Trump ha infatti tolto il tetto alle spese per la difesa imposto da Barack Obama e lo ha fatto con la naturalezza con cui si ordina un caffè al bar. Di più, nello stesso discorso dedicato al nuovo piano per la sicurezza degli Usa ha detto che affronterà la questione della Nord Corea, visto che «non c’è alternativa», che chiederà al Congresso di abrogare l’accordo con l’Iran e che Russia e Cina sono di fatto nemici dell’America. Di fatto, un impianto ideologico neo-con da tutti contro tutti che sostituisce il concetto di scontro di civiltà con quello di supremazia globale dettato dalla sopravvivenza di quella che per la Casa Bianca è l’unica democrazia compiuta al mondo.
Ma quanto avvenuto non è solo un cambio di paradigma nella politica di sicurezza, bensì anche un atto formale di sostegno all’economia e ai rally borsistici in atto, il tutto nella settimana chiave della riforma fiscale. Sostituire il Qe della Fed con un warfare forza quattro che si regge proprio sulla percezione dell’accerchiamento: Corea del Nord, Iran, Russia e Cina sono altrettanti nemici mortali per la sopravvivenza dell’America come superpotenza e, in quanto tali, vanno affrontati. Adesso. E per farlo, occorre la deterrenza militare, la stessa che quel rammollito di Obama con il suo sciagurato accordo co Teheran ha distrutto. Basico. Elementare. Primitivo. Ma efficacissimo. E molto meno elementare di quanto si possa pensare.
Davvero, infatti, The Donald passerà dalle parole ai fatti? L’opzione bellica esiste? Prendiamo la questione russa. E senza nemmeno andare troppo indietro nel tempo, basta scomodare la cronaca pura e semplice degli ultimi cinque giorni. Dunque, giovedì scorso il ministero della Difesa russo denuncia ufficialmente il fatto che gli Usa stiano addestrando centinaia di ex militanti dell’Isis in un campo profughi siriano non distante dal confine turco. Accusa non nuova, ma questa volta mossa in maniera ufficiale e, stranamente, ripresa da quasi tutti i media, anche quelli dichiaratamente russofobi in materia di opposizione ad Assad. Di fatto, un atto ostile, quantomeno diplomaticamente. Il giorno dopo, venerdì, la stessa Russia annuncia di aver sventato un mega-attentato proprio dell’Isis a San Pietroburgo nel corso delle festività natalizie, grazie a informazioni girate dalla Cia all’Fsb, con tanto di telefonata di ringraziamento di Vladimir Putin a Donald Trump ed esaltazione della politica di collaborazione in fatto di intelligence. Ora, difficile che tutto sia avvenuto nella giornata di venerdì, ovvero la trasmissione di informazioni dagli Usa e l’operazione dell’Fsb contro gli estremisti: roba di giorni almeno, se non di settimane. Perché si è atteso proprio il giorno dopo il duro attacco del ministero della Difesa al Pentagono per renderla nota? O, al contrario, perché il ministero della Difesa, certamente a conoscenza dell’operazione antiterrorismo compiuta a San Pietroburgo, ha voluto sputare in un occhio a chi, stando all’ufficialità, ha fatto in modo che venisse sventato un attentato definito di enormi proporzioni?
Fermi tutti, poi. Perché sempre venerdì a Washington è emerso qualcosa di più sui rapporti Usa-Russia: avvocati del Comitato repubblicano hanno denunciato come uomini del capo della Commissione sul Russiagate, Robert Mueller, non solo stiano violando le regole nel tentativo di entrare in possesso di mail ritenute importanti, ma che, addirittura, in alcuni casi avrebbero cominciato a operare in tal senso addirittura durante il periodo di transizione fra l’amministrazione Obama e quella Trump: come dire, c’è il sospetto che il Russiagate e la Commissione fossero un qualcosa di preordinato. Donald Trump si limita a un tweet indignato, ma il tam tam è già partito: la credibilità di Mueller è compromessa, i Repubblicani vogliono la sua testa.
L’avranno? Non importa, la cosa importante è depotenziare la Commissione nel momento in cui si sentiva più forte, ovvero quando aveva la certezza di poter usare la carta delle relazioni estere del team di Trump come conferma della collusione con il Cremlino, nonostante la clamorosa gaffe dell’ABC sulla tempistica delle stesse: ovvero, l’averle collocate in campagne elettorale, mentre si tennero durante la fase di transizione, quando sono di prassi. E, guarda caso, proprio durante la lame duck session, qualcuno vicino a Mueller cominciò a indagare a cercare mail compromettenti. Come dire, per un po’ Mueller è meglio che voli molto basso, salvo rivelazioni da Watergate.
Ultimo particolare, questo can-can avviene nei tre giorni che accompagnano l’inizio della settimana decisiva per la riforma fiscale, talmente in bilico da vedere il senatore McCain addurre motivi di salute per la sua possibile (e determinante) assenza dal Congresso oggi, lui che che a tre giorni dalla diagnosi di tumore al cervello era a Capitol Hill a tuonare contro la riforma sanitaria. Vi pare una situazione normale? E perché poi ritornare in grande stile con la retorica contro Pyongyang, dopo settimane di silenzio dall’ultimo esperimento balistico? E l’accordo iraniano?
Che dire, inoltre, della sortita su Gerusalemme capitale d’Israele, capace sì di far incendiare le strade di Gaza ed Hebron, ma che, alla fine, ha spinto allo scoperto, in maniera addirittura suicida l’altro giorno, il buon Recep Erdogan? La Russia, infatti, è stata quantomeno diplomatica sul caso, condannando solo blandamente e formalmente l’atto della Casa Bianca, ma senza calcare su toni: Ankara, invece, ha addirittura proposto il riconoscimento formale di Gerusalemme Est come capitale della Palestina. L’ego di Erdogan gli costerà caro? Sicuramente gli imporrà una scelta che voleva evitare: scegliere da che parte stare, con la Nato o con la Russia. E, soprattutto, ridimensionare le sue mire espansionistiche sula Siria, cresciute enormemente nelle ultime settimane.
E Putin, cosa ci guadagna? Russiagate depotenziato e una bel clima da Guerra Fredda artificiale, l’ideale per la campagna elettorale per le presidenziali del 2018. Alle quali, da notare, si presenterà da indipendente. Morale della favola? Quello che vi dico da mesi: è tutta un’enorme messinscena di emergenza e paura, “terrorismo” e minacce di guerre potenzialmente devastanti a livello globale. Il tutto per il mantenimento del sistema, almeno fino a quando non sarà risolto l’enorme nodo della crisi finanziaria in ebollizione. Poi, Russia e Cina cercheranno la via per bypassare il dollaro come valuta benckmark e gli Usa reagiranno da par loro. Per adesso, occorre solo l’inganno globale. Altrimenti, non si spiegherebbe il silenzio dei media sulla scelta di Trump di scatenare il moltiplicatore del warfare, bellicismo economico che si traduce in sopravvivenza del sistema. Anche editoriale, purtroppo.