A cosa servono le agenzie di rating se i mercati sembrano “impiparsene” delle loro classificazioni? Il 10 luglio Standard & Poor’s ha abbassato da BBB+ a BBB la valutazione dei titoli di Stato italiani. Si è temuto un forte trambusto sia in Borsa che sul mercato secondario dell’obbligazionario. Alcuni alti e bassi si sono avuti, ma sono stati, correttamente, attribuiti ad altre determinanti (il quadro politico interno, le difficoltà di alcune grandi imprese, le vicende del Monte dei Paschi di Siena), anche e soprattutto perché non si è verificato il deprezzamento della valorizzazione dei titoli di Stato (al contrario rimasti abbastanza stabili nel contesto dell’obbligazionario). Il 12 luglio, i titoli di Stato francesi sono stati riclassificati da Fitch da AAA a AA+, un downgrade di forte valore simbolico se si pensa all’orgoglio gallico e al senso di grandeur che contraddistingue i nostri cugini d’Oltralpe. È vero che sia Moody’s che Standard & Poor’s avevano già portato ad AA+ il rating del debito pubblico francese e che, quindi, la riclassificazione, al ribasso, di Fitch era, sotto molti punti di vista, scontata.
Pochi mesi prima il downgrading dei titoli di debito pubblico della Gran Bretagna non ha creato forti tensioni. E nell’agosto 2011 quello dei titoli di Stato americani parve un evento epocale: tutto si risolse in pochi giorni, con una riduzione dei rendimenti (non della valorizzazione del capitale) dei buoni del Tesoro Usa. Chi, nell’aspettativa di revisioni (al ribasso) delle classificazioni, ha venduto obbligazioni con tassi indicizzati ai prezzi per comprarne, invece, con rendimenti connessi a indici di volatilità, oggi deve concludere di non avere fatto un buon affare.
Molti economisti sostengono, da tempo, che mentre le agenzie hanno competenze specifiche (e un vantaggio comparato) nelle valutazioni aziendali e, quindi, nell’espressione di giudizi sui corporate bonds emessi da imprese, è difficile che ne sappiano più dei mercati in materia di affidabilità del debito sovrano (i cui dati sono noti a tutti, specialmente nei paesi avanzati a economia di mercato). Le agenzie si difendono dall’accusa di irrilevanza. Moody’s ha pubblicato uno studio da cui si evince che gli Stati “insolventi” sul proprio debito sovrano (in gran misura, paesi in via di sviluppo), almeno 12 mesi dalla dichiarazione d’insolvenza, avevano emesso titoli che l’agenzia aveva giudicato “speculativi”. Un nesso analogo viene individuato in un lavoro di Standard & Poor’s: il 7,5% dei titoli classificati BBB (ossia come quelli del Tesoro italiano) sono stati “insolventi” entro dieci anni; la percentuale raggiunge il 15,1% per quelli classificati BB, 32% per quelli classificati B e ben 95% per quelli classificati CC o C (con l’eccezione della Grecia, che non è però ancora giunta all’insolvenza). Nessun titolo di Stato classificato AA o anche soltanto A si è rivelato fasullo, ossia insolvente, entro dieci anni dalla formulazione del giudizio.
Ciò vuol dire: che le agenzie sono diventate futili, da utili che erano nell’orientare i risparmiatori e i grandi investitori? Oppure che, come sostiene The Economist, in tempi di crisi risparmiatori e investitori sono diventati meno selettivi – si accontentano di ciò che offre la piazza e non vanno più alla ricerca di primizie?
Ci sono anche altre ipotesi. Una (di cui abbiamo trattato la primavera scorsa) riguarda la comune matrice culturale delle tre maggiori agenzie, tutte americane, anzi yankee. Un’agenzia “europea” non sarebbe auspicabile? Non per nulla, i cinesi si sono dotati di una propria agenzia, la Dagong, specializzata nel rating del debito sovrano. Non è però semplice creare dal nulla un’agenzia di rating. Lo è ancora di meno in un’Unione europea dove è essenzialmente in corso una difficile battaglia tra una scuola con una visione federalista e una che vede un’evoluzione verso accordi a più velocità e privi di ulteriori cessioni di sovranità. Tutto è reso ancora più difficile da un negoziato sostanzialmente impantanato in materia di unione bancaria europea.
Un’ipotesi interessante è un lavoro inedito di Rosa M. Abrantes-Metz e di Kristiyana Teodosieva, ambedue della New York University Le due economiste esaminano come molte azioni e reazioni delle tre principali agenzie siano prevedibili, soprattutto in quanto sembrano muoversi all’unisono, probabilmente in seguito a intense consultazioni tra di loro (un po’ come, per un certo periodo, i direttori di quattro quotidiani italiani ritenuti importanti hanno fatto alle 19:00 ogni sera per decidere come impostare la prima pagina del giorno successivo). Eloquente il titolo del lavoro: Cosa fare con le agenzie di rating? Comprendere il problema per trovare la soluzione. A loro avviso, il nodo è che tra le agenzie si è formato un oligopolio collusivo. Dato che scrivono negli Usa, sottolineano come l’Antitrust debba prendersene carico.
In Europa, credo che la materia debba essere esaminata con attenzione dalla Direzione Generale Concorrenza della Commissione europea (oltre che dalle autorità di regolazione e vigilanza nazionali).