“Spero che il Parlamento possa discutere e votare liberamente”. In queste parole apparentemente scontate di Massimo D’Alema si nasconde il succo del contendere intorno alla legge elettorale. Siamo alla stretta finale, i prossimi dieci giorni potrebbero davvero decidere delle sorti della legislatura, in un modo o nell’altro. La legge approderà nell’aula della Camera lunedì 27 aprile ma il momento della verità sarà intorno al 5 maggio, quando per davvero si comincerà a votare e si vedrà se il sottile sospetto di D’Alema risulterà fondato, oppure no.
Due sono i problemi aperti: il voto segreto e il ricorso alla questione di fiducia. Il primo, il voto segreto, è espressamente contemplato da parte del regolamento di Montecitorio per quanto riguarda le leggi elettorali. E nell’ombra c’è chi spera che il malessere in casa Pd esploda, facendo un bello sgambetto al governo Renzi, anche perché basterebbe una sola modifica approvata per far tornare di nuovo l’Italicum al Senato, dove i numeri sono decisamente più incerti per l’esecutivo, visto che vi si concentrano molti esponenti della minoranza dem. E per ottenere il voto segreto basta la richiesta di un capogruppo (Brunetta già pronto) o di 30 singoli deputati.
Non regge — e i renziani ne sono perfettamente coscienti — lo scambio fra assenza del ricorso alla fiducia e mancato ricorso al voto segreto. A questo patto potrebbero accedere gli esponenti delle varie minoranze democratiche, ma certo non se ne sentirebbero vincolati i gruppi di opposizione, che non aspettano di meglio che vedere il governo in difficoltà, oppure inciampare.
Con ogni probabilità gli emendamenti saranno poco meno di un centinaio, gli stessi ammessi in Commissione Affari costituzionali, e bocciati dalla sola maggioranza dopo la sostituzione d’imperio di dieci deputati democratici contrari alla legge e il conseguente Aventino delle opposizioni. Non c’è intento ostruzionistico, ma il tentativo di entrare nel merito di una legge che favorisce soprattutto (se non esclusivamente) Renzi e il suo Pd.
Nel momento in cui cominceranno ad arrivare le richieste di voti segreti sugli emendamenti, il governo avrà il pretesto perfetto per porre la questione di fiducia, anche se — ricordano molti parlamentari democratici della minoranza — in materia di legge elettorale questo strumento è stato usato solo per due volte nella storia parlamentare italiana, per la “legge truffa” del 1953 e, prima ancora, per la legge Acerbo del fascismo, nel 1925. Maria Elena Boschi ha fatto capire che l’esecutivo non intende correre rischi, e che dei precedenti se ne infischia.
Ma se si arriverà alla fiducia la reazione più probabile è l’abbandono dell’aula da parte delle opposizioni, cosa che metterà ancora più sotto pressione le differenti anime democratiche che si oppongono a Renzi. In Transatlantico i fedelissimi del premier fanno professione di ottimismo e sono convinti che alla fine la disciplina di partito prevarrà sui dubbi per la gran parte di coloro che oggi tentennano, a partire dal capogruppo dimissionario Roberto Speranza.
A loro dire l’area del dissenso potrebbe ridursi da 60/80 dissenzienti al massimo a 20/30 unità, cosa che una maggioranza che conta su 380/390 voti può sopportare tranquillamente. Non si dimentichi che la maggioranza assoluta della Camera è fissata a 316 voti.
La vera incognita è costituita però dal voto finale sulla legge, che sarà obbligatoriamente a scrutinio segreto, e costituirà il vero banco di prova per Renzi. In cuor suo il premier conta che nei momenti decisivi il peso di chi nel suo partito dissente possa essere controbilanciato, almeno in parte, dal “soccorso azzurro” dei deputati di Forza Italia vicini a Verdini e a Rotondi, non meno di una quindicina di voti, forse decisivi.
Se Renzi vincerà la battaglia dell’Italicum, la legislatura avrà preso una piega in discesa, e l’area dell’opposizione interna al Partito democratico dovrà alzare definitivamente bandiera bianca. Unica possibilità di mettere i bastoni fra le ruote al premier segretario, riuscire a sabotare il percorso della riforma costituzionale che dovrebbe riprendere in Senato dopo il sì definitivo alla legge elettorale. Sinora però gli oppositori interni del presidente del Consiglio sono apparsi troppo divisi e timorosi per impensierirlo per davvero.
Al contrario, se il premier-segretario dovesse scivolare su una buccia di banana sulla legge elettorale, si aprirebbero scenari a oggi francamente impensabili, una crisi di governo, un rimpasto, o addirittura il bivio fra un esecutivo di emergenza ed elezioni anticipate al massimo in autunno. La palla, in quel caso, tornerebbe al Quirinale, e Mattarella sarebbe chiamato alla prima delicata prova del suo mandato presidenziale. Ma a questo scenario Renzi non vuol pensare. Avanti tutta è il suo imperativo, sicuro di riuscire a piegare ogni resistenza. Esterna, ma soprattutto interna al Pd.