La maggioranza perde pezzi uno dopo l’altro. Sarà la forza d’attrazione del già Cavaliere che, lo ha detto lui stesso, ha sette vite come i gatti; sarà il miraggio di un sistema proporzionale puro che può dare un seggio anche ai fili d’erba non solo ai cespugli; fatto sta che la maggioranza si riduce ai minimi. Tutto questo governo, d’altra parte, va avanti con il minimo comune denominatore. La legge sullo ius soli è stata rinviata all’autunno, decisione saggia, forse inevitabile, ma è chiaramente la premessa per un rinvio sine die. In autunno il Parlamento sarà intasato di provvedimenti, e la carta del voto di fiducia dovrà essere giocata con grande circospezione, probabilmente riservandola alla Legge di bilancio.
Anche nel caso della politica fiscale, la tendenza prevalente è di ridurla al minimo indispensabile: qualche taglietto qua e là tipo quelli della cosiddetta spending review che nessuno ha davvero visto né sentito; un paio di ritocchi alle imposte per accontentare le categoria di elettori più sensibili; aggiustamenti di facciata al bilancio (window dressing direbbero a piazzetta Cuccia). Et voilà il gioco è fatto.
Se il calcolo è questo, ebbene i minimalisti hanno già sbagliato i conti. Facciamo un passo indietro e vediamo come va la congiuntura. Gli ultimi segnali sono positivi e il prodotto lordo, se le cose non peggiorano di qui a fine anno, dovrebbe chiudere meglio del previsto con una crescita dell’1,3 o 1,4 per cento. Ma, se non ci sarà un qualche miglioramento nei prossimi mesi, anche il debito pubblico continuerà a salire tanto da mettere in pericolo la promessa solenne di ridurlo o per lo meno fermarlo, fatta dal governo a Bruxelles e agli elettori italiani. È vero che il senso comune populista se ne infischia del debito, anzi chiede allo Stato di pagare per tutto e per tutti (dai soci delle banche popolari ai giovani che non hanno il lavoro e non lo cercano), ma persino le fake news hanno le gambe corte.
Una Legge di bilancio minimalista, approvata da una maggioranza minima a pochi mesi dalle elezioni, non è esattamente quel che si aspettano non solo gli eurocrati dell’Ue e della Bce, ma soprattutto quelli che nelle borse internazionali debbono convincere anche le vedove scozzesi a comprare titoli italiani. Questo vale ora che c’è il Fiscal compact, ma valeva anche prima, per non parlare dei tempi della lira. Chi ha i capelli bianchi o chi ha letto qualche libro ricorderà la seconda metà degli anni Settanta quando l’Italia venne salvata dal Fondo monetario internazionale e come garanzia di un prestito da parte della Bundesbank dovette consegnare lingotti d’oro. Non fu solo una firma sotto un pagherò, sia chiaro; fu una spedizione fisica, con tanto di treno blindato da Roma a Francoforte. Anni dopo il Tesoro ricomprò l’oro e oggi nei sotterranei della Banca d’Italia si possono ancora vedere i lingotti con impresse le insegne della banca centrale tedesca (allora era la Repubblica Federale).
La merce che più conta sul mercato, nei rapporti tra imprese, banche, consumatori, famiglie, cittadini, è la fiducia e questa merce nella Italia di oggi è scarsa quanto l’acqua nei periodi di siccità. Il bilancio di questa legislatura, del resto, è quanto mai magro. La ripresa è arrivata con almeno due anni di ritardo rispetto alla media europea, la Spagna ha un tasso di crescita superiore al nostro, mentre il debito pubblico rispetto al prodotto lordo è inferiore solo a quello della Grecia. Il continuo aumento del debito in quantità, mese dopo mese, appare quasi come un mistero della politica fiscale italiana a meno di non concludere che è fallito il tentativo di ridurre la spesa corrente.
Le affermazioni del governo, in particolare del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, secondo il quale la spesa improduttiva è stata limata di 25 miliardi di euro, sono vere solo a metà, perché quel che è uscito dalla porta è rientrato poi dalle mille finestre spalancate dello Stato centrale, delle regioni, dei comuni. Difficile convincere chiunque che l’Italia sia sulla buona strada per risanare i conti pubblici.
Questa legislatura lascia, dunque, alla prossima un’eredità difficile che potrebbe persino peggiorare. La campagna elettorale è già cominciata e ruota già attorno all’usuale caccia al colpevole estendendo a ritroso l’intervallo di tempo almeno fino all’inverno 2011-2012: chi è stato il peggiore tra Monti, Letta e Renzi? Monti il salvatore dall’abisso a suon di tasse che ha provocato una seconda recessione dopo quella del 2008-2010; Letta, consumato dalla prudenza, che non è riuscito a risalire dal crollo; Renzi, partito a razzo per cambiare tutto e tutti, ma affondato da una contradditoria coalizione controriformista, un cartello dei No che egli stesso a contribuito a far cementare.
Insomma, si sta mettendo in scena un altro gioco al massacro tutto interno alla classe politica per far contenti i professionisti della chiacchera. Ma c’è qualcuno che abbia qualche idea su che cosa fare nella prossima legislatura?