A sorpresa, Silvio Berlusconi tira fuori dal “cilindro” un nome che bisogna andare a cercare su Wikipedia. Nella sua “contro-Leopolda” milanese, il cavaliere spariglia, tanto per cambiare, ancora una volta le carte, gioca con il mazzo e scompagina i giochi di chi pensava già a cordate ministeriali. Scandisce Berlusconi: “Il generale dei carabinieri Leonardo Gallitelli può essere il nostro candidato premier”. Qualcuno strabuzza gli occhi perché Gallitelli deve essere una brava persona, ma non è proprio popolarissimo.
C’è poi un piccolo particolare: che occorre mettere d’accordo tutto il centrodestra, che naturalmente dovrebbe vincere le elezioni e che lo stesso cavaliere, qualche settimana fa, aveva fatto il nome dell’attuale presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani, che forse in questo momento non si ritrova in uno stato di allegria sfrenata. Ma al cavaliere non pare vero decidere e mettere magari un candidato uno contro l’altro: lui fa l’arbitro, gli altri sgomitano e litigano per i posti.
Sembra una campagna elettorale surreale, con un Paese reale sempre più distaccato da questa classe politica che quasi si diverte a giocare ai “quattro cantoni”, a promettere e a smarcarsi a vicenda. In questi ultimi giorni abbiamo assistito allo show di Matteo Renzi alla Leopolda, dove si è appreso che in Italia va quasi tutto bene e che andrà ancora meglio presto, con una linea di politica economica del tutto imprecisabile per una serie di bonus nascosti tra le pieghe di una legge di stabilità che in Europa guardano strabuzzando gli occhi.
Poi ci sono i Dioscuri del congiuntivo che hanno sorpreso tutti. Alessandro Di Battista, la “Dolores Ibarruri” — detta la “pasionaria” — in versione pacifista del Movimento 5 Stelle, ha rinunciato a ricandidarsi per la nascita di un figlio, il suo ruolo di padre e, forse, per un po’ di polemica interna o per “sedersi in panchina” nella eventuale sostituzione di Virginia Raggi, sindaco di Roma, se cadesse per questioni giudiziarie. L’altro emergente del grillismo, Luigi Di Maio, si è esibito settimana scorsa con una lettera al presidente francese Emmanuel Macron che pareva una missiva natalizia a Gesù Bambino, per presentare il suo movimento sul piano europeo.
Oggi, nella gara a fare l’amico di Macron, Renzi, dalla tribuna della Leopolda, non è stato secondo a Di Maio. Dopo la sconfitta elettorale di Angela Merkel e i problemi di instabilità politica tedesca, è Macron il nuovo genio che risolverà la crisi di un’Europa che sembra andare a pezzi. Stiamo a vedere che cosa accadrà quando Macron dovrà affrontare le scadenze che lo attendono in materia di legge del lavoro e dovrà allargare la sua base parlamentare, sinora precaria, magari riguadagnando qualche consenso perduto nell’opinione pubblica. Bisognerà ricordarsi, ogni tanto, di quello che riescono a dire i “nuovisti” di questa Italia.
In tale avanspettacolo della politica della seconda repubblica, mancava solo la sortita di Berlusconi. Non c’è alcun pregiudizio contro il generale Gallitelli, ma non si capisce a quale titolo e perché debba essere improvvisamente catapultato a Palazzo Chigi, designato da un leader che non è rinato, ma è stato fatto rinascere unicamente dall’inconsistenza della politica italiana di questi anni. Se solamente si considerasse che Berlusconi è ritornato al centro della politica italiana, dopo tutto quello che è successo, a 81 anni, e riprendendo più o meno i discorsi che faceva nel 1994, bisognerebbe convenire che qualche cosa in questi anni di pulizia generale, voluti dalla “rivoluzione di velluto”, non ha funzionato. In 25 anni, mentre il paese è arretrato su tutti i fronti economici e sociali, si è praticamente fatto una sorta di gioco dell’oca e si è ritornati al punto di partenza.
Ma guardiamo per un attimo a questa sortita relativa al generale Gallitelli.
Non c’è dubbio che Berlusconi ritenga di essere il vero leader del centrodestra e, per motivi di carattere generazionale e per altre questione di controllo dell’elettorato di centrodestra, ritiene di poter designare il primo personaggio che gli passa per la testa.
Naturalmente un leader che può controllare, che può portare alla ribalta politica sapendo che a governare realmente sarà sempre lui, il Berlusca che non molla mai, anche perché non c’è nessun altro che risulti incredibilmente credibile in una fetta sempre più ridotta dell’opinione pubblica, quella che va alle urne. Mentre è ormai quasi scontato che, in una simile confusione e in una tale disillusione, alle urne si recherà una minoranza di italiani, probabilmente intorno al 55 per cento se tutto va bene, ma forse anche meno del 50 se le cose vanno avanti in questo modo.
Le tre forze politiche che stanno disputando il “campionato” elettorale che si è aperto ieri sembra che facciano a gara per realizzare il più possibile, cercando di far votare il meno possibile.
L’obiettivo è quello che si parli di loro e in questo ricordano una celebre frase di Giulio Andreotti: “Purché se ne parli”.
In un paragone calcistico, sembra che l’obiettivo principale sia quello di svuotare gli stadi, con improvvisati protagonisti.
Certo che, in un simile contesto, Berlusconi può essere avvantaggiato, perché è come cambiare allenatore a una squadra di calcio. Chissà se gli sarebbe andato bene anche “ringhio” Gattuso come candidato a Palazzo Chigi.
Altro che tramonto delle ideologie, ormai viviamo nell’obnubilamento della più normale politica.