La forza di un cristiano impegnato nella realtà (sia egli un politico, un intellettuale o un commerciante o qualunque altra cosa) non sta tanto nella quantità di cristianesimo che introduce nel suo progetto di vita, quanto nella domanda quotidiana a Dio e a Maria affinché il suo lavoro sia utile al cammino della Chiesa.
Perciò è giusto e prudente ripetere le parole di San Paolo: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (1Cor., 10,12). Vorrei dunque domandare innanzitutto scusa all’on. Mario Mauro per i toni che ho usato nei suoi riguardi l’altro giorno, in risposta a un suo editoriale comparso su IlSussidiario.net. Proprio a causa della grande stima che nutro nei suoi confronti mi sono sentito libero di rivolgermi a lui in termini che però alla fine sono risultati un po’ brutali e (come mi ha fatto rilevare, con garbo e intelligenza, il lettore Massimo Cappuccio) ultimamente poco chiari.
Cercherò allora di chiarire meglio il mio pensiero. Il mio disagio nasce dalla constatazione, come ho già detto, di un ruolo di sostanziale marginalità, di una perdita di autorevolezza, di cui l’Europa oggi è vittima. Il fatto che su Siria, Egitto, Sudan non si stia spendendo da parte nostra una sola parola, e che l’infamia della Libia sia stato il solo segno del nostro interessamento per un mondo pieno di sofferenza che si trova oltretutto a pochi chilometri da casa nostra, è un segno che contrasta con la misteriosa assegnazione del Premio Nobel per la Pace alla Comunità Europea.
Contrasta almeno secondo il mio punto di vista, che non concepisco la pace come una garanzia intra moenia, ma come un fattore incidente nella vita del mondo intero. Se tu sei in guerra, il fatto che io sia in pace non può lasciarmi tranquillo.
La ragione della marginalità culturale dell’Europa sta, secondo me, nel fatto che l’Europa di oggi non si fonda su un’idea, ma piuttosto sul tradimento di diverse idee. Ho letto con attenzione i testi che Mario Mauro ha dedicato al problema delle radici cristiane dell’Europa. Sono testi intelligenti, che riprendono, con una preoccupazione divulgativa che avrebbe meritato maggior attenzione, diversi interventi di Benedetto XVI sull’argomento.
Il limite della politica si rese evidente proprio in quell’occasione. Gli interventi del Papa, come quelli dell’on. Mauro, furono recepiti come altrettante rivendicazioni all’interno di un dibattito che veniva mantenuto sul piano esclusivamente strategico. Gli stessi calcoli di opportunità che raccomandano prudenza rispetto agli eccidi in Siria consigliarono di glissare sulle radici cristiane dell’Europa. Evidentemente, un’unità politica nata non sulle idee ma sul denaro – domando scusa per questa banalità, che però non è senza conseguenze sul piano pratico – non poteva permettersi di essere laica fino al punto di riconoscere un dato storico oggettivo e inconfutabile come quello.
(Voglio ricordare che uno stato laicista non è affatto uno stato laico, bensì uno stato confessionale di nessuna confessione tranne che di sé – e quindi intimamente violento).
La mancanza di un’idea vera ha prodotto quella marginalità che stiamo scontando con il tradimento non solo della radice cristiana, ma anche della vera laicità, che ha nella cultura il suo punto fondante. Penso ad esempio a un paese come la Francia, che di questo principio ha fatto una bandiera nel mondo (pensiamo solo alle sue grandi istituzioni culturali), e a tutta la storia che ha dovuto calpestare in nome di un patto stretto, ironia della sorte, con la Germania, che storicamente rappresenta tutto ciò che la Francia non è. Perfino il conflitto culturale tra i due paesi aveva prodotto, nei secoli, dei benefici per la civiltà: questa finta pace fondata sul nulla che benefici può portare?
Queste sono le riflessioni amare (ma non disperate) di un intellettuale che ama l’Europa. Con due brevi conclusioni. La prima. E’ necessario che torniamo a pensare la politica come un’azione che non può essere staccata, per così dire, dalla sua tecnica di pensiero. Per questo, prima della strategia, è necessaria una visione culturale. Noi portiamo ancora il lutto delle tragedie prodotte dalle ideologie nel XX secolo, e questo limita il nostro raggio d’azione, anche se proprio questa paura di sporcarci le mani col pensiero ha prodotto nuove mostruosità, e altre ne produrrà. Basterebbe fare il conto di tutte le morti non naturali che si stanno producendo nel mondo per inorridire: noi viviamo in una perenne guerra strisciante, dove l’uomo è considerato meno di zero.
La seconda. La politica può e deve (anche) servire chi ha una visione, però la mia convinzione è che queste visioni non nascano, oggi, dalla politica. Gli osservatori privilegiati sono altri. Penso ad esempio alle opere sociali ed educative importanti che stanno nascendo sul territorio, e che stanno diventando non solo luoghi di assistenza o di formazione, ma di vera elaborazione di pensiero. Sono il germe dei “nuovi monasteri”: luoghi dove un nuovo modello di convivenza possa essere sperimentato, perché solo incontrando una vita diversa un uomo può capire quanta morte c’è nel modello di vita che il mondo ci propone (o propina) oggi.
Parlando di servizio, però, non voglio dire che la politica debba avere una posizione ancillare rispetto a queste esperienze. Voglio dire che queste opere costituiscono altrettanti modelli di azione: ai politici non è perciò chiesta una semplice azione protettiva, ma piuttosto di imparare da queste opere ad avere la stessa lucidità, la stessa lungimiranza e – prima di tutto – la stessa fiducia che queste opere testimoniano. Abbiamo bisogno di statisti, di politici capaci di guardare lontano, senza paura di sbagliare.
Per questo progetto, che non può essere solo un calcolo ma deve realizzarsi nell’imprevedibilità del quotidiano, occorrono una grande fede in Dio (e non solo nelle radici cristiane) e una grande stima per l’uomo.