La tanto acclamata dismissione del patrimonio pubblico potrebbe, finalmente, diventare realtà. Il progetto del governo sembra abbastanza complicato. Sarebbe, tuttavia, già in fase di avanzamento. In sostanza, si sta studiando la messa a punto di tre fondi comuni dotati, inizialmente, di 3,5 miliardi di euro. Il primo, gestito dalla Cassa depositi e prestiti, avrebbe il compito di acquisire da Comuni, Provincie e Regioni gli immobili di loro proprietà per valorizzarli e rivenderli sul mercato. Il secondo, invece, sarebbe gestito dall’Agenzia del Demanio e si occuperebbe della vendita delle proprietà si sua competenza, salvo l’esercizio dell’opzione di acquisizione da parte degli enti locali prevista dalla legge. Il terzo, infine, sarebbe attivato dalla Cdp, ma mediante il Fondo strategico italiano. Acquisirebbe, per poi collocarle sul mercato, le partecipazioni nelle società controllate che i Comuni, entro il 31 dicembre 2013, e in misura variabile a seconda della loro grandezza, sono obbligati a dismettere. Considerando che il nostro debito ha raggiunto il livello record di 1948 miliardi di euro, sembra che operazioni del genere non siano procrastinabili. «A fronte di un tale livello, non c’è alternativa. Non possiamo di certo pensare di aumentare ulteriormente le tasse. Ammazzeremmo definitivamente l’economia e, oltretutto, riusciremmo a ridurlo in misura decimante esigua», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Carlo Buratti, professore di Scienza delle finanze presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova.
Bisogna capire se la strada individuata dal governo sia quella giusta. «In un recente passato – dice Buratti – era stato deliberato di dare agli enti locali tutti gli immobili non più utilizzati dallo Stato. Si ipotizzava che fossero loro a potersi occupare della valorizzazione. Si tratta di una marcia indietro che lascia perplessi. Anche perché lo Stato ha già tentato di vendere le proprie proprietà, ma si trattò di un fallimento». Forse, meglio lasciare l’operazione in mano ai privati? «Tendenzialmente, dei privati, in questi casi è meglio diffidare. Il rischio è che incamerino i benefici della vendita, attraverso provvigioni estremamente elevate. Credo che il pubblico abbia tutte le capacità di collocare sul mercato questi beni. Non sono, del resto, operazioni così complicate. Se una cosa del genere può farla un’agenzia immobiliare, non si capisce perché non lo possa fare lo Stato. I precedenti fallimenti derivano da ragioni contingenti». Tornando ai piani del governo, vanno tenuti in considerazioni una serie di fattori: «Per quanto riguarda le quote di società partecipate, bisogna ammettere che, benché la normativa, da anni, avrebbe dovuto spingere gli enti locali a vendere, ci sono state resistenze molto forti. Ora, c’è poco tempo per farlo. Ma, se dovessero vendere tutti insieme, probabilmente, dati i tempi che corrono, nessuno comprerebbe. E’ auspicabile, quindi, che i fondi, una volta fatta l’acquisizione, possano rivendere al momento più opportuno».
E che, prima, acquisiscano a una cifra equa. «Affinché il prezzo sia congruo, esistono società di esperti del campo che quotano la società. Di norma, funziona così. Ogni parte dispone dei propri consulenti e ci si mette d’accordo sul prezzo». In questo caso, tuttavia, la controporte è costituita dallo Stato.«Effettivamente, date le circostanze, non è la situazione ideale. La Cdp, infatti, ha il “coltello dalle parte del manico”, mentre gli enti locali sono affamati di soldi». Rispetto ai fondi che si occuperanno degli immobili, ci si chiede se non ci sia il rischio di malversazioni finanziarie o di episodi di corruzione legati al diffuso malaffare nell’ambito di svariati organismi pubblici. «Il rischio c’è – dice Buratti -. Non possiamo fare altro che auspicare nella vigilanza del commissario Enrico Bondi. Non abbiamo certezze. Possiamo solo avere fiducia».
(Paolo Nessi)