A ricordarci quanto può esser duro il risanamento del sistema bancario dopo la grande crisi ci ha pensato ieri Royal Bank of Scotland. La banca britannica ha chiuso il 2016 con una perdita di sette miliardi di sterline, frutto stavolta anche delle multe pagate in Usa per irregolarità cui su farà fronte anche con la vendita della controllata William & Glynn (imposta dallo Scacchiere). Dal 2008 a oggi, la banca ha accumulato perdite per 58 miliardi di sterline, più dei 45,5 miliardi versati dal governo nel 2008 per evitare il tracollo dell’istituto. Più di tre volte l’importo del decreto salva-banche. Consoliamoci, dunque. Soprattutto oggi, giorno di festa in cui è d’obbligo festeggiare l’esito trionfale dell’aumento di capitale di Unicredit: 12,98 miliardi di euro raccolti senza far ricorso al consorzio di garanzia, un’impresa che a novembre sembrava davvero impossibile. Un risultato eccezionale, che non è certo il frutto del caso.
Va dato atto ai soci, innanzitutto, di aver scelto l’uomo giusto per l’impresa: Jean-Pierre Mustier, ex Socgen, un passato in Unicredit lontano dai vari potentati ai vertici che hanno complicato la vita del povero Federico Ghizzoni. Mustier, scelto dopo un iter interminabile, ha avuto il coraggio e la forza di fare quel che i banchieri nostrani, sotto mille pressioni, in passato non sono riusciti fare: varare un aumento di capitale all’altezza delle sfide e dei problemi di una congiuntura difficile. Prima ancora, ha dato il via a una gigantesca azione di pulizia da sofferenze e incagli: 17,7 miliardi più altri 37 che saranno ripuliti entro il 2020. Al prezzo di mercato, senza illudersi di poter incassare molto di più evitando il “ricatto” dei fondi specializzati: meglio liberarsi di una zavorra che frena il presente piuttosto che sperare in una svolta futura. Se il mercato migliorerà, del resto, Unicredit ne trarrà comunque giovamento, perché le partite incagliate sono state cedute a una società veicolo in cui la banca ha una robusta partecipazione.
Forte di queste premesse, Mustier ha fatto il giro dei protagonisti del mercato, hedge fund in testa. Nel frattempo sono state sacrificate alcune partecipazioni di grande valore, ma la banca ha preservato la presenza in Italia e Germania e nel centro Europa, oltre a una rete forte in Turchia e in Russia. Il tutto dopo una riorganizzazione e un accordo sindacale che ha snellito la struttura. Insomma, una volta tanto, tutti, dagli azionisti al sindacato e al management, si sono comportati a dovere, cancellando i pessimi esempi di governance del recente passato. E il sistema bancario italiano, per ora, ha evitato un colpo fatale: senza l’iniezione di capitale in Unicredit, il futuro sarebbe stato davvero critico.
È il caso di tenerlo bene a mente perché il lieto fine non azzera le responsabilità del passato: com’è stato possibile perdere tanti soldi? Ma per ora prevale la soddisfazione. Unicredit può essere il simbolo del riscatto, purché la stessa determinazione e la stessa chiarezza venga estesa ad altri situazioni. A partire da Montepaschi.
In questa vicenda, condita di errori e leggerezze criminali (quanto tempo si è perduto alla ricerca di investitori che non esistevano per non turbare il tentativo di far vincere il Sì al referendum…), si assiste oggi a un incredibile braccio di ferro tra la Bce e la Commissione Ue. La banca centrale ha imposto un’iniezione di capitali per 8,8 miliardi, ma Bruxelles, sotto la pressione tedesca, è restia a concedere l’intervento pubblico senza porre condizioni e termini stringenti ancora da definire. La paura è di creare un precedente che potrebbe vanificare il divieto degli aiuti di Stato. Il problema potrebbe essere superato se venisse completata l’Unione bancaria che dovrebbe prevedere un sistema comune di garanzie. Ma per ora non se ne parla proprio per le resistenze tedesche. E così la banca resta nel limbo, vittima di contraddizioni, ipocrisie e ritardi.
Intanto matura il nodo delle banche venete. È scontato che ci vorranno 4-5 miliardi per rilanciare il ruolo dell’istituto che erediterà Pop. Vicenza e Veneto Banca. Ma chi pagherà il conto? Ci sarebbero i soldi di Atlante 2, ma le banche (Banco Bpm in testa) si oppongono: questi soldi, dicono, servono per affrontare il nodo degli npl. Tocca allo Stato, non a noi, trovare i mezzi per una ricapitalizzazione temporanea in attesa di un’azione di mercato. Senza troppo sacrificare i risparmiatori che per ora hanno ricevuto solo promesse.
Chissà, se ci fosse mossi per tempo, senza troppo proteggere gli interessi costituiti del management, dei soci più importanti e dei potentati locali protetti dall’etichetta di banche del territorio, si sarebbero potuti trovare capitali e soggetti interessati per promuovere altri “miracoli” tipo Unicredit.