Spiace per la collega Rachel Sanderson, ma Gianni Credit non è andato oltre i primi due capoversi della sua lunga feature sulla “Italian finance” pubblicata sul Financial Times di ieri. Il primo capoverso si concludeva con la parola “trulli” (in corsivo, così come si trattasse di una parola in swahili). Il secondo si chiude invece con la parola “mafia” (in tondo, come parola d’uso ormai corrente per “criminalità organizzata”, con il sottinteso che essa è sempre riconducibile a qualche “sud del mondo”, naturalmente visto da Londra). Spiace nondimeno per i lettori de Il Sussidiario: anzitutto per quelli che hanno buttato l’occhio sulla pagina del FT, magari attratti dal titolo “Tempo di modernizzazione”. Ma un giornalista finanziario italiano – un collaboratore de Il Sussidiario – si rifiuta ormai anche solo di leggere una sedicente analisi del sistema bancario italiano alla vigilia dell’Unione bancaria, il cui primo perno è un’ispezione della Banca d’Italia alla Banca di credito cooperativo di Alberobello (a proposito: perché la collega, già che era nella Puglia meridionale, non si è spinta fino a Trani, dove la locale procura ritiene che Standard & Poor’s si sia resa colpevole di svariati reati finanziari manipolando i rating della Repubblica e delle stesse banche italiane?).
Spiace anche per la Banca d’Italia se non replica alla solita soffiata anonima del supposto “chief executive of a large italian bank”. Secondo questo best insider, “la Banca d’Italia sta cercando di fare in un anno il lavoro malfatto per vent’anni”. Ma come: vent’anni di tempo sprecato, di sole “porcate” in banca? E i cinque anni di governatorato di super-Mario Draghi, poi beatificato in Bce? E le tre ondate di fusioni creditizie che l’Italia ha fatto e la Germania non è mai neppure riuscita a pensare per le sue Sparkassen infiltrate dai partiti fin nelle midolla? E le banche italiane che hanno resistito al primo urto del crac Lehman, mentre la Royal Bank of Scotland è fallita ed è ancora nazionalizzata?
Spiace, infine, per Paolo Sorrentino e il suo Oscar, meritato ma ridato a orologeria a un’Italia stereotipa: quella dei trulli, di un dolce e solare far niente. Ma l’eterna “grande bruttezza” delle banche italiane noi preferiamo continuare a tenercela: perfino quella della sede del Montepaschi, nell’immancabile fotona rinascimentale ristampata dal FT. A proposito: ieri il titolo del Monte ha messo a segno un prodigioso colpo di reni (+19%), trainando Piazza Affari. La Fondazione ha finalmente venduto un pacchetto dell’8% con i fondi internazionali all’opera. Non sarà che i corsari della City in attesa al largo della Toscana stavano perdendo la pazienza?
La Ue, giusto ieri sera, ha pensato bene di ricantare vecchi ritornelli: credito cooperativo e Fondazioni sono il cancro del sistema bancario italiano, che dovrebbe prendere esempio da quello spagnolo per come ha ripulito i bilanci. Vabbè: è l’ultima volta – promesso – che ricordiamo quella volta che la commissaria Ue olandese Neelie Kroes – appoggiata dal FT – assegnò AntonVeneta all’Abn Amro, che poi fu acquistata da Rbs, Santander e Fortis mentre AntonVeneta finì di ritorno a Mps. Oggi tutti falliti, o quasi.