La lotta agli sprechi è una battaglia importante e un po’ triste. Inevitabile in tempi di magra economica. Ma non si può pensare che infiammi anime e cuori. A meno che non si accompagni a una visione rinnovata del rapporto tra potere pubblico e società civile, tra governo e cittadini. La pubblica amministrazione è un terreno decisivo per le sorti del welfare state italiano, chiamato a riformarsi o a morire.
Ancora una volta, il Piano Brunetta presenta luci e ombre. Razionalizzare il ricorso alle consulenze esterne, intervenire sul risparmio energetico, sopprimere gli enti inutili ed evitare la duplicazione delle funzioni è un atto di buon senso. Le pubbliche amministrazioni più efficienti si sono già mosse da tempo in questa direzione. Giustamente il Ministro chiede che queste misure di contenimento portino con sé anche una accresciuta responsabilità della PA nei confronti dei cittadini. Da questa preoccupazione nascono l’apertura alla class action (la cui entrata in vigore viene però rimandata di un anno), l’obbligo di rispettare i tempi massimi di conclusione dei procedimenti (ridotti rispetto ad oggi), la previsione di nuove tutele per l’utente dei servizi pubblici.
Si tratta di un tipo di azione che vanta noti predecessori, prima tra tutti Margaret Thatcher nell’Inghilterra degli anni Ottanta. Brunetta recupera molte delle classiche manovre thatcheriane, ma dimentica che quelle misure erano accompagnate da una sostanziale privatizzazione dei servizi. Nelle linee programmatiche che avevano preceduto, poco più di un mese fa, i 34 punti della riforma, si preannunciava la delega di alcune funzioni pubbliche ai privati. Ma nulla di tutto ciò si ritrova nel decreto. In un sistema privatizzato il soggetto gestore dei servizi, a cui vengono imposte misure di contenimento dei costi e di stimolo all’efficienza nei confronti dell’utenza, è diverso da quello chiamato ad operare il controllo. Nel caso italiano, invece, questa separazione di funzioni è di fatto inesistente. Il controllo deve perciò essere affidato a complicati procedimenti burocratici: nuovi decreti, nuove delibere, tanta carta e forse ulteriori consulenze esterne. Paradossalmente, si rischia di ricreare le condizioni che da sempre frenano l’azione pubblica nel nostro Paese.
C’è un secondo, grave difetto nel Piano. Infatti, è pensato per essere applicato in modo omogeneo e indifferenziato su tutto il territorio nazionale. Ma la verità è che ci sono differenze profonde tra una parte e l’altra della nostra penisola. Ancora una volta, ad essere penalizzate saranno le amministrazioni più virtuose che, avendo già limato gli sprechi, saranno costrette a tagliare in qualità. Sarebbe auspicabile un confronto approfondito per giungere a decisioni condivise circa gli interventi necessari nei diversi contesti. Si tratterebbe anche di un primo passo verso il sempre annunciato federalismo.
Serve, infatti, un nuovo approccio non solo nei confronti dell’organizzazione della PA, ma rispetto al rapporto complessivo tra pubblici poteri e società civile. Un rapporto caratterizzato per secoli da un’esasperata conflittualità, che ha bisogno di essere ripensato su nuove basi. Fiducia, libertà e responsabilità dovrebbero essere i criteri guida di una riforma della pubblica amministrazione che non si riduca a dichiarazioni di intenti e non degeneri in tagli indiscriminati, ma possa davvero, come auspica il Ministro «suscitare energie e speranze per l’innovazione e per il futuro».
(2.continua)