No news, good news. O no? La Banca centrale europea ha deciso ieri, a maggioranza, di non abbassare i tassi. Nel frattempo, come già avvenuto nelle ultime riunioni precedenti, il presidente Mario Draghi ha ribadito che “la politica monetaria resterà molto espansiva, con tassi ai livelli attuali o più bassi per un periodo prolungato di tempo”. Nessuna novità nemmeno sul fronte degli “strumenti innovativi”, di cui si parla da tempo, per immettere liquidità e frenare la discesa dei prezzi che rischia secondo molti economisti (ma non per la Bce) di sconfinare nella deflazione. Draghi, stavolta, li ha elencati per esteso: la possibile rivitalizzazione del mercato degli abs (cioè il mercato dei pacchetti di mutui in pratica scomparso in Europa), le aste di lungo termine condizionate a impieghi all’economia reale (modello inglese) e misure di allentamento quantitativo (soluzione americana e giapponese).
Almeno per ora, però, non se ne farà niente. Un po’ per scelta , ma soprattutto perché “in molti casi, è necessario cambiare la regolamentazione e le leggi” dell’Europa. Già, Mario Draghi deve fare i conti con vincoli ben più stringenti e ingombranti dei suoi colleghi: Janet Yellen o Mark Carney possono ordinare acquisti di titoli emessi dal Tesoro Usa o dallo scacchiere della Regina. Ma le cose si complicano per l’Europa della moneta, composta da 18 Stati. È legittima la decisione di intervenire sui titoli azionari o sui mutui di alcuni paesi trascurando gli altri? Probabilmente no. Ma allora, ogni intervento deve avvenire pro-quota. Ovvero, la Bce dovrebbe concentrare il 40% dei suoi acquisti in Germania, il 22% in Francia, solo il 17% in Italia. Con l’effetto di allargare la forbice di Nord-Sud.
Basta con considerazioni di carattere tecnico, che pur servono a spiegare le difficoltà di cui deve tener conto Draghi. La riunione del direttorio di ieri ha avuto un carattere più “politico” per quanto la banca centrale tenda a stare alla larga dalla sfera di governi e partiti, soprattutto a un paio di mesi dalle elezioni e mentre incombono venti sinistri sul confine orientale, dalle parti Kiev. Ma chi si aspettava clemenza dal governatore che viene da Roma o comunque un qualche distinguo dai paletti dell’austerità, ha dovuto prender atto che Draghi, stavolta, è più vicino a Olli Rehn che non ai sogni nostrani di poter spuntare un qualche sconto.
Il presidente della Bce, senza citare l’Italia, ha sottolineato che per certi paesi ci vuole “una traiettoria al ribasso del debito”. Anzi, tanto per non lasciare spazio a equivoci, ha sottolineato che le strategie fiscali dei paesi dell’Eurozona “devono essere in linea con il Patto di Stabilità”. Matteo Renzi non s’illuda perciò di trovare a Francoforte un alleato per chiedere sconti su deficit e debito. O propenso a inventare qualche soluzione per allentare la stretta sulla liquidità o contrastare il calo dei prezzi, due spine che rendono improbo il cammino dell’Italia.
Il Bel Paese, insomma, dovrà affrontare il Fiscal compact, che prevede il taglio progressivo del rapporto debito/Pil al 60%, con un tasso di crescita comunitario che supererà l’asticella dell’1,5% solo a fine 2015, mentre l’inflazione risalirà all’1,8%, prevede la Bce, nel 2016. L’Italia, in una situazione di questo tipo, difficilmente potrà risalire nei prossimi anni a un tasso di crescita dell’1,5% (il minimo, per poter garantire un saldo positivo del fabbisogno primario che non richieda nuove tassi e sacrifici). Nella storia finanziaria mondiale non è mai successo, peraltro, che un Paese abbia raggiunto significativi progressi sul fronte del debito con un tasso di inflazione attorno all’1%.
In un certo senso, dunque, l’Italia (ma anche altri paesi) è chiamata a una mission impossible nel tempo. Nel breve termine, a render meno drammatica la situazione, contribuisce il calo dei tassi di mercato (vedi spread) grazie all’afflusso dei capitali internazionali. Ma i capitali, si sa, sono ballerini. Oggi accorrono in Italia, domani possono uscire con altrettanta rapidità. A raddrizzare i conti, si potrebbe obiettar, potrebbe essere l’aumento dell’export, trend non facilissimo se si pensa al vento di austerità che soffia dalla Cina o dal Brasile. O, soprattutto, alla competizione sempre più feroce per aumentare la propria quota di export. Proprio ieri la Francia ha varato il suo patto di stabilità che si è tradotto in un forte taglio degli oneri per le imprese in cambio di impegni (non definiti) per nuove assunzioni. Il rischio è che per quadrare il cerchio, ovvero ridurre il debito e aumentare la competitività non resti che premere sul costo del lavoro (con un forte aumento del precariato e del lavoro nero) o con tagli della forza lavoro (causa principale del recupero di competitività della Spagna).
È questa la sfida che deve affrontare l’Italia. Per attutire i costi sociali di questa terapia, sarebbe necessario aumentare il valore aggiunto di merci e servizi rivolti all’export. O sviluppare con azioni rapide l’appeal dell’offerta interna in materia di turismo, oltre che favorire gli investimenti dall’estero con azioni concrete, efficaci e immediate. Ma per assecondare tale meccanismo sarebbero necessarie istituzioni efficaci di assistenza universale e di reinserimento professionale rivolte a coloro che perdono il posto di lavoro.
“L’Italia ne è priva – osserva sconsolato il capo economista di Nomisma, Sergio De Nardis – In secondo luogo occorrerebbe che emergesse un numero sufficiente di imprese in espansione, per assorbire le riduzioni di manodopera da quelle in contrazione. Credit crunch ed esiguità della ripresa fanno venire meno questa condizione. C’è dunque un rischio: se persisterà la stretta del credito, il percorso di svalutazione interna potrebbe comportare un costo elevato in termini di restringimento della base produttiva a causa del prevalere degli effetti di distruzione su quelli di creazione”.
Per scongiurare questo destino occorrono scelte drastiche, contrastate da lobbies nazionali e locali. Ma non c’è alternativa: o passa la linea del coraggio (senza riguardi per nessuno, sindacato e Confindustria comprese), offrendo a Draghi le armi per favorire una svolta graduale sul fronte dei sostegni agli investimenti, oppure sarà inutile invocare sconti in Europa.