In uno scenario di crisi sempre più preoccupante, con i Governi di tutto il mondo che stanno faticosamente tentando di salvare pezzi delle loro economie – prima le banche e le istituzioni finanziarie, poi le assicurazioni e, più recentemente, le aziende dell’industria dell’auto – il dibattito sul più corretto rapporto tra Stato, società e mercato è ormai uscito dal recinto delle discussioni accademiche per diventare di stringente attualità e concreta rilevanza.
Anche in Italia, dove pure fortunatamente non è stato ancora necessario l’intervento diretto dello Stato per evitare il fallimento di qualche banca o impresa, si discute della necessità/opportunità di garantire aiuti pubblici in una situazione di gravità eccezionale.
In tutto questo discutere a favore o contro gli aiuti di Stato, tuttavia, c’è un grande assente: e il grande assente è la piccola impresa, le cui ragioni vengono assai raramente menzionate e di cui pochi sembrano davvero preoccuparsi. Si tratta di un’assenza particolarmente rilevante in un Paese come il nostro in cui le piccole e piccolissime attività imprenditoriali costituiscono la componente essenziale del sistema produttivo visto che, delle circa quattro milioni di imprese attive in Italia, il 94,9% appartiene alla categoria delle micro-imprese (da 1 a 9 addetti), mentre le piccole imprese (da 10 a 49 addetti) sono il 4,5% del totale (e dunque il 99,4% delle nostre imprese ha meno di 50 addetti).
È per certi versi sconcertante constatare come a essere considerati candidati naturali a ricevere aiuti di Stato siano le grandi banche, le grandi società di assicurazioni e persino i grandi produttori di autoveicoli mentre invece le centinaia di migliaia di piccole imprese che formano il nostro sistema manifatturiero – un sistema, è bene ricordarlo, capace di generare negli ultimi anni straordinari attivi nella nostra bilancia dei pagamenti – non sembrano, chissà perché, meritare altrettanta prodigalità. E pensare che la nostra piccola impresa, pur in una situazione di crisi davvero drammatica, non chiede i faraonici aiuti pretesi invece da altri soggetti (aiuti che rischiano peraltro di essere incompatibili con un debito pubblico già elevatissimo). Si contenterebbe di molto meno. Ma di che cosa esattamente?
Già lo scorso giugno la Commissione europea, nel lanciare il manifesto per la piccola impresa (lo Small Business Act), ha raccolto l’opinione di più di 500 piccoli imprenditori europei, da cui è emerso come al primo posto nell’elenco dei più rilevanti problemi avvertiti dalle Pmi europee vi sia il peso dei vincoli di tipo amministrativo e regolamentale. In effetti l’avversione verso l’eccesso di burocrazia è un dato costantemente confermato da tutte le analisi empiriche sulla piccola imprenditorialità.
E, infatti, più recentemente, da un’indagine realizzata da Confcommercio-Format relativa all’impatto sulle PMI della burocrazia e degli adempimenti burocratici, presentata la scorsa settimana in una delle iniziative di preparazione della settimana europea delle Pmi in programma dal 9 al 16 maggio prossimi, risulta che ben il 56,5% delle aziende del campione intervistato ha speso in adempimenti amministrativi nel 2008 una quota tra lo 0,1% e l‘1,4% dei ricavi. Il 38,9% ha sostenuto costi pari o superiori al all’1,5% dei ricavi, mentre solo il 3,7% delle imprese ha dichiarato di non aver sostenuto costi.
Un intervento del legislatore volto a ridurre il gravame burocratico sulla piccola impresa creando un quadro normativo più favorevole allo svolgimento delle attività imprenditoriali sarebbe quindi una riforma dai costi piuttosto limitati ma dalle incalcolabili potenziali ricadute in termini di efficienza. Questo tipo di intervento avrebbe inoltre il vantaggio non indifferente che non andrebbe ad aggravare le già disastrate casse dello Stato.
Un altro intervento che sarebbe assai importante per le piccole imprese fa riferimento alla relazione tra imprenditorialità ed educazione. È noto come il nostro sistema educativo sia oggi scarsamente focalizzato sull’imprenditorialità come valore. Nei curricoli scolastici il collegamento tra mondo della scuola e mondo delle imprese andrebbe invece maggiormente sviluppato ed enfatizzato, cercando di rendere in primis gli insegnanti più familiari e più vicini alla realtà delle imprese.
Per gli studenti, a cominciare dai primi anni di scuola, si tratterebbe poi di organizzare seminari e periodi di tirocinio presso imprese locali con l’obiettivo di mostrare come la carriera imprenditoriale sia un’opzione affascinante. Si tratta complessivamente di interventi di non difficile attuazione, con costi molto contenuti, che avrebbero il grande merito di favorire lo sviluppo di quella attitudine e passione alla attività imprenditoriale che è il prerequisito fondamentale perché un Paese consegua gli obiettivi della crescita e dello sviluppo.
Bisogna dare atto al nostro Governo di essersi molto impegnato, anche se non sempre con risultati pienamente soddisfacenti, nel cercare di garantire alle imprese il sostegno del sistema creditizio. E tuttavia interventi di riduzione del fardello burocratico accompagnati da una accresciuta sensibilizzazione per la cultura dell’imprenditorialità avrebbero un valore, anche formativo, immenso.
Mentre le grandi banche e le grandi imprese sono portatrici di legittimi (e giustamente considerati) interessi economici, la piccola impresa è portatrice non solo di un rilevante interesse economico ma anche di un incalcolabile valore culturale perché queste piccole e piccolissime imprese che formano il nucleo del nostro sistema produttivo, per la grandissima parte non casualmente a carattere familiare, sono caratterizzate da uno straordinario spirito di intrapresa, ovvero da una cultura d’impresa, che significa non solo imprenditorialità, ma anche capacità di assunzione del rischio non disgiunto però dalla responsabilità verso chi partecipa all’impresa stessa.
Sanno bene dunque cosa significhi correre un rischio liberamente ma responsabilmente, mettendo così in pratica concretamente ogni giorno quel principio di sussidiarietà che, tra l’altro, se effettivamente applicato, permetterebbe di rispondere a molti dei quesiti sopra ricordati relativi alla portata e al significato dell’intervento dello Stato in economia.
Le Pmi sono una grande forza della nostra economia, spesso lasciate sole in una competizione aggressiva e difficile da sostenere. Favorire la crescita dell’amore per l’attività imprenditoriale e liberare gli imprenditori da inutili gravami burocratici sono dunque interventi essenziali per coniugare gli obiettivi della crescita e dello sviluppo.
In una fase di accentuata crisi di sfiducia poi, in cui nessuno vuole più rischiare nulla tanto che, per taluni, anche i Buoni del Tesoro sembrano un azzardo, la capacità di intrapresa delle nostre piccole imprese è un valore inestimabile per il Paese che va assolutamente salvaguardato e valorizzato se vogliamo farci trovare pronti quando, si spera il prossimo anno, si presenteranno i primi segnali di ripresa.