Possiamo ricominciare a crescere senza ridurre la camicia di ferro dei costi della regolamentazione su individui, famiglie e imprese? Ne dubito. Da quindici anni esistono, in varie forme, dipartimenti e uffici per la semplificazione, ma non se ne vedono concretamente in risultati. Oltre una decina di anni fa, la Presidenza del Consiglio ha iniziato uno studio sui costi della regolamentazione per le imprese; sono stati ingaggiati consulenti, ma che io sappia il risultato (e il rapporto) finale, ove conclusi, sono stati tenuti molto discreti. Inoltre, quanto più si tenta di semplificare la regolazione nazionale, tantopiù prolifera quella europea, un vero e proprio Leviathan che vomita regolamenti, direttive e circolari di fuoco.
Prendiamo alcuni esempi. La regolamentazione per dar vita al mercato unico europeo (e farlo funzionare) ammonta a 150.000-200.000 pagine – ancora più carta è stata necessaria per la moneta unica e ammennicoli vari; il costo dei regolamenti Ue su cittadini e imprese è variamente stimato tra l’1% e il 3,5% del Pil complessivo dell’Europa a 27; lo documenta Alan Hardacre in un saggio pubblicato dall’Eipa (l’istituto europeo di formazione per la pubblica amministrazione, un ente che non inforca certo occhiali malevoli nei confronti delle istituzioni europee – che lo finanziano). Un vero e proprio Himalaya di regole spesso tanto complicate e tanto contraddittorie che, per superarle, non resta che eluderle.
In Germania, quando nel 2005 venne formata la Grande Coalizione presieduta dal Cancelliere Angela Merkel, unicamente gli obblighi di fornire informazioni alla burocrazia federale (escludendo quella dei Länder) toccavano 40 miliardi di euro l’anno (in base a una stima effettuata su 7.000 dei 10.500 obblighi d’informazione individuati dal Consiglio federale per il Controllo della regolazione); un rapporto di cinque anni fa del Consiglio in questione afferma che si tratta di una stima per difetto, ma che il Governo federale si è impegnato a ridurre costi delle regole su cittadini e imprese del 25% e che, di riffa o di raffa, lo farà (la determinazione teutonica è nota, anzi notoria).
I tedeschi hanno preso a modello l’Olanda che, secondo il più recente International Regulatory Reform Report, in libreria in questi giorni, «è diventata un modello e un leader internazionale in materia di riforma della regolamentazione». L’obiettivo è stato raggiunto a metà.
Anche la Francia(notoriamente statalista e interventista) ci sta dando a fondo: dal 2006, afferma un saggio di Frédéric Bouder, si possono avere in otto giorni tutte le autorizzazioni per far decollare un’impresa. In Francia, come in America dall’epoca del primo Governo Reagan (misura che nessun Presidente o Congresso successivo ha modificato), tutti i disegni e le proposte di legge dovranno essere corredati non solo di una relazione tecnica relativa all’impatto sul bilancio dello Stato (analoga a quanto predisposto in Italia con l’ausilio della Ragioneria Generale dello Stato), ma anche da un’analisi costi-benefici (o costi-efficacia) rigorosa.
Queste e altre informazioni, dati e analisi si raccolgono nella ricca documentazione presentata alla International Regulatory Reform Conference diventata un evento annuale a cui partecipano (su inviti individuali) regolatori e de-regolatori di tutto il mondo. In breve, tutti (Governo, Parlamenti, individui, famiglie, imprese) si sentono imbrigliati in una montagna ormai disincantata di regole grandi e piccole spesso da loro stessi generate o proposte.
Ciascuna ha una sua giustificazione puntuale (o la aveva quando Governi e Parlamenti oppure autorità di regolazione le hanno varate). Tuttavia, sono adesso un freno allo sviluppo, specialmente dei Paesi industriali a economia di mercato e più particolarmente nell’iper-regolata Ue (dove regole comunitarie si sommano a quelle internazionali e a quelle statali, a quelle regionali, a quelle provinciali, a quelle comunali, a quelle delle comunità montane e via regolamentando). La montagna disincantata spiega, in certa misura, perché da qualche anno siano i Paesi in via di sviluppo e a basso reddito pro-capite (dove le regole sono poche e poco osservate) a tirare la carretta dell’economia mondiale.
L’eccesso di regolazione in Europa spiega, in certa misura, perché la crisi finanziaria scoppiata negli Usa ha rallentato l’economia americana (meno regolata di quella Ue), ma ha portato la recessione nel Vecchio continente.
Cosa fare? Un po’ tutti si arrabattano a semplificare la regolazione e a frenare l’incontinenza di chi ne propone sempre di aggiuntiva. L’Italia ha poche lezioni da offrire. È poco credibile la cifra di 16 miliardi di euro pubblicizzata come costi di informazione che gravano su cittadini e imprese (rispetto ai 40 miliardi, limitati al Governo federale, computati in Germania).
Il regulatory budgetting è stato intrapreso in modo sistematico in Gran Bretagna e già sperimentato con successo negli Usa in alcuni settori (sanità, ambiente). Anche in Italia, c’è qualche esempio (lo si è fatto ad esempio nel valutare la posizione Ue in materia ambientale o nell’esaminare la revisione delle tax expenditures per le elargizioni liberali per la cultura). Non lo abbiamo presentato, però, al resto del mondo. Se non mostriamo agli altri le cose buone che facciamo, non lamentiamoci di non essere trattati bene. Occorre soprattutto pensare alla “sunset regulation” (ossia una legge costituzionale meglio se rinforzata; tutta la normativa deve essere a tempo e decade se non varata di nuovo dagli organi preposti) che il Governo in carica pare abbia in animo di varare. E via discorrendo. Oggi sono in vigore regolamentazioni sulle carrozze a cavalli e i lumi a petrolio.
Comprensibile che se si appartiene a uno schieramento politico si tiri l’acqua alla propria cordata. In sedi internazionali come l’Irrc, tuttavia, gli altri mostrano il punto di vista dei Governi in carica, non i risultati (anche ove meritori) di chi è stato mandato all’opposizione dagli elettori. Vecchi colleghi di Banca Mondiale, Fmi, Ocse e Commissione europea non hanno risparmiato battutine di corridoio: “Ciascuno a suo modo” (come Luigi Pirandello intitolò la sua commedia più bella, ma meno rappresentata, poiché richiede 42 personaggi in scena).