«L’errore di Renzi è stato quello di concentrare le risorse disponibili sul Jobs Act anziché destinarle alle famiglie. Finché i consumi non ripartono, anche riducendo il costo del lavoro non si generano crescita e quindi occupazione in modo stabile». Ad affermarlo è Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Secondo le ultime rilevazioni Istat, a febbraio il tasso di occupazione, pari al 56,4%, cala dello 0,2%. Il tasso di disoccupazione è pari invece all’11,7%, in aumento dello 0,1%. Un dato positivo emerge invece dall’indice Pmi rilevato da Markit-Adaci, che tra febbraio e marzo cresce da 52,2 a 53,5 punti.
Professore, i dati negativi sull’occupazione indicano che il Jobs Act ha già esaurito la sua carica propulsiva?
Il momento favorevole della dinamica occupazionale registrato nel corso dell’anno passato in questa fase sembra essersi stabilizzato, anzi sta dando segnali di inversione di tendenza. Da un lato sarebbe troppo sbrigativo affermare che questo rallentamento sia legato alla diminuzione degli incentivi legati al Jobs Act, ma va anche riconosciuto che questo era proprio ciò che si temeva. Esaurita cioè questa fase di convenienza elevata per le imprese, le assunzioni non sarebbero continuate sul trend dell’anno scorso.
Secondo lei qual è stato l’errore del governo?
L’errore principale è stato quello di impegnare un volume elevato di risorse per un provvedimento di politica economica che poteva essere più bilanciato dal lato delle famiglie. L’idea insita nel Jobs Act è che occorra privilegiare le imprese. Ciò in parte è ovviamente vero, ma è anche vero che le imprese assumono e fanno investimenti se l’attività produttiva ha prospettive di crescita. Perché ciò avvenga occorre che sia in corso un aumento della domanda interna e internazionale. Pensare che le imprese assumano solo perché il costo del lavoro è basso è un gravissimo errore.
L’indice Pmi invece è in crescita. Che cosa ci aspetta alla luce di questi dati contrastanti?
Il dato dell’indice Pmi non contraddice il ragionamento che ho fatto poco fa. Tra il momento vero della ripresa e quello in cui l’occupazione torna a crescere in modo robusto e stabile passa sempre un certo lasso di tempo. Quest’ultimo è tanto più lungo quanto più lunga è la crisi, e noi usciamo ormai da una recessione che si avvia verso il decennio.
Che cosa ci riserva la situazione economica internazionale?
Quella attuale è una situazione molto delicata per l’Italia e per l’Europa. L’incognita maggiore è rappresentata dalle referendum nel Regno Unito. Temo che comunque dopo l’esito del voto ci saranno delle conseguenze, soprattutto se i cittadini britannici decidessero di uscire dall’Ue. Il rischio è che a traballare sia l’intero sistema europeo. La Brexit è una scadenza che per l’Europa potrebbe rappresentare un punto di svolta purtroppo non positivo.
Lei ritiene che questo referendum arrivi in un momento già di per sé difficile per l’Ue?
Certamente. Da un lato le manovre di politica monetaria continuano a essere meno efficaci rispetto al passato. Dall’altro la stessa Germania sta attraversando una fase abbastanza particolare. È ormai evidente a tutti che non ha nessuna intenzione di utilizzare i benefici che ha acquisito in questi anni per realizzare investimenti infrastrutturali. Basti pensare che in Italia c’è un Frecciarossa da Torino a Napoli, mentre in Germania tra Berlino e Monaco di Baviera non esiste l’alta velocità. Tutte le infrastrutture ferroviarie tedesche sono deboli, per non parlare delle autostrade. Ciò è significativo di quanto sul piano infrastrutturale il governo di Berlino potrebbe fare di più.
Le novità provenienti da oltreoceano sono più rassicuranti?
Il Brasile, dopo un 2014 di crescita zero e un 2015 negativo, ha raggiunto un punto di svolta. Nonostante la lotta politica e le accuse di corruzione, il Brasile quest’anno potrebbe riprendere a crescere perché si tratta comunque di un Paese estremamente vitale e con delle opportunità molto elevate. Nel frattempo gli Stati Uniti sono l’unico Paese a essere cresciuto in modo costante dal 2009 al 2015. Non bisogna però dimenticare che secondo numerosi commentatori anche gli Stati Uniti potrebbero rallentare.
Che cosa si aspetta per l’Europa e l’Italia alla luce di questa situazione internazionale?
Alla luce di questa situazione internazionale, per l’Europa il quadro non è così favorevole, e per l’Italia siamo in una situazione ancora più delicata perché abbiamo un problema serissimo con le banche. Avremo dunque difficoltà nel mettere in sicurezza determinate situazioni bancarie, sempre sperando che all’interno del sistema bancario italiano non ci siano degli effetti a catena perché potrebbero avere delle conseguenze negative.
(Pietro Vernizzi)