A volte nelle diatribe apparentemente secondarie si nasconde lo spaccato della realtà. E la fotografia della situazione politica dentro il Pd si vede nitida nella polemica domenicale fra Roberto Giachetti e la minoranza Pd. Il più renziano dei renziani è famoso per non avere peli sulla lingua e ha detto chiaro quel che probabilmente pensa il segretario del Pd, cioè che si dovrebbe andare al voto subito dopo la sentenza della Corte costituzionale, applicandone il dettato.
Non pago dell’aver apostrofato Speranza e l’intera minoranza Pd con un rotondo “avete la faccia come il culo”, Giachetti ha aperto le ostilità del nuovo anno, beccandosi da parte di Federico Fornaro la definizione di “capo del partito dell’avventura”. E Dario Ginefra ha completato il quadro, incaricandosi di spiegare il paradosso per cui solo in Italia può accadere che rappresentanti della maggioranza del partito di maggioranza chiedano il voto anticipato insieme alle opposizioni.
Si riparte da qui, e da un altro dato acclarato: Renzi è convinto che il tempo giochi a suo sfavore, e che quindi — dal suo punto di vista — prima si vota e meglio è. Il Pd arriva quindi profondamente lacerato alle due settimane che probabilmente decideranno i tempi della fine della legislatura. E la fretta dell’ormai ex premier finirà inevitabilmente per scontrarsi con il partito della cautela, che è folto e trasversale e si fa scudo dei richiami del presidente della Repubblica al senso di responsabilità.
Nel messaggio di fine anno Mattarella ha puntualizzato con una certa chiarezza che la sua unica richiesta rimane quella di avere un sistema elettorale coerente fra Camera e Senato. E in via riservata ha lanciato a Renzi inviti alla cautela, dal momento che nessuno può essere sicuro che l’intervento della Consulta possa essere immediatamente applicato. Un passaggio parlamentare viene dato per scontato, e i giochi veri si apriranno solo quando il verdetto della Corte sarà stato reso noto.
Riparato il sistema elettorale, in modo che l’ingovernabilità sia scongiurata, per Mattarella si può andare a votare, anche a giugno, anche facendo la campagna elettorale nelle stesse settimane del G7 di Taormina. C’è il precedente di Fanfani nel 1987 a confermare la fattibilità di questo scenario.
Chi ha parlato con Renzi in questo periodo festivo giura però che l’ipotesi di un voto ancora più anticipato non sia stata del tutto archiviata. Che l’idea di votare ad aprile per potersi presentare lui stesso al G7 continua a solleticare l’ex sindaco di Firenze.
Una fretta maledetta, che va a scontarsi con i no della minoranza Pd e di tutte le opposizioni, o quasi. Inevitabile, quindi, che Renzi abbia bisogno di alleati. Disponibili a votare il ritorno al Mattarellum con il Pd si sono detti Lega e Fratelli d’Italia, ma non bastano. Visto che i centristi alfaniani tentennano, al Senato i numeri potrebbero non essere sufficienti. Quindi il dialogo con Salvini e Meloni è destinato a non decollare mai.
L’unico interlocutore interessante rimane Berlusconi, che però ha immediatamente bocciato l’ipotesi di tornare alla legge del 1993, rimangiandosi quella “religione del maggioritario” su cui Forza Italia era nata. Oggi l’ex Cavaliere preferirebbe di gran lunga un sistema proporzionale, con l’obiettivo evidente di tenersi pronto per un governo di larga coalizione dopo il voto.
In apparenza, quindi, Renzi e Berlusconi si trovano su posizioni inconciliabili: Mattarellum contro proporzionale, voto subito contro fine naturale della legislatura (in attesa che finalmente arrivino notizie da Strasburgo, che rimettano in pista l’uomo di Arcore). In realtà le prossime due settimane diranno proprio se una mediazione potrà concretizzarsi intorno all’ipotesi del governo di grande coalizione dopo il passaggio elettorale.
Si tratterà sui tempi e sui sistemi elettorali su due differenti livelli: uno evidente, con un invito democratico agli altri partiti a un tavolo comune, e uno più riservato e quasi esclusivamente bilaterale. E si andrà a chiudere solo dopo il pronunciamento della Corte, da cui non si potrà prescindere.
Qualcuno in questi giorni si è spinto a scrivere che questo accordo già ci sarebbe, intorno a un premio di maggioranza fisso del 10% per la lista (o la coalizione) più votata, e a uno sbarramento piuttosto alto anche per la Camera (si parla del 5%), esplicita richiesta di Forza Italia per scoraggiare gli alleati del centrodestra (nuovo e vecchio) a correre da soli. Le alchimie sono complesse, e mutevoli. Quel che c’è di certo è che i canali di comunicazione fra Arcore e Pontassieve sono operativi e attivi.
Esiste un rischio, però: che la pozione magica per dar vita al governo di grande coalizione non riesca. Che gli apprendisti stregoni sbaglino le dosi, finendo per avvantaggiare il terzo incomodo della politica italiana, Beppe Grillo. Il rischio, giocando con gli alambicchi della legge elettorale, è più concreto di quanto non si possa immaginare.