Nord contro Sud, Nordest versus Nordovest, Fiat contro piccole e medie imprese, immigrati contro lavoratori italiani: la crisi economica sembra avere mandato in frantumi un sistema produttivo e sociale che ha resistito a molte crisi precedenti. Eppure tra quello che appare a prima vista come un cumulo di macerie emergono realtà che contrastano l’immagine di un mondo a pezzi: imprenditori del Nordest, da leghisti con piccole aziende come Bepi Covre, a imprenditori mediograndi come Mario Carraro e Mario Moretti Polegato della Geox, che dicono di ritenere un valore per le loro aziende l’apporto dell’immigrazione e una sciagura l’esempio inglese.
Una multinazionale come la Luxottica che decide di sperimentare forme innovative di contrattazione con sostegni al welfare e al reddito dei suoi dipendenti e al territorio. Tutti piccoli segni che il mondo produttivo cammina su fattori di competitività non sempre misurabili con la tradizionale teoria economica.
Che valori ha e che armi si prepara ad usare contro la crisi il mondo delle piccole e medie imprese, punto di resistenza dell’economia di questi anni? Di che cosa ha bisogno per essere aiutato? E’ a questi interrogativi che vuole rispondere un’indagine curata dalla Fondazione per la Sussidiarietà che quest’anno ha dedicato a questo tema il suo Rapporto annuale (edito dalla Mondadori) nell’ipotesi che si possa leggere, nel mondo produttivo delle piccole e media aziende, comportamenti sussidiari volti cioè a operare con un tessuto di valori e di relazioni che vanno al di là della pura e semplice gestione di un’attività economica o della massimizzazione del profitto di breve periodo tipico dice della grande impresa quotata in Borsa.
I risultati dell’indagine condotta su un campione di 1600 aziende disseminate in tutta Italia sono a tratti sorprendenti: più libertà e meno burocrazia, un mercato più aperto e con maggiore eguaglianza nelle possibilità di accesso, una contrattazione salariale decentrata, un rapporto tra azienda e lavoratori bastato su alleanze e crescita reciproca piuttosto che sulla conflittualità, importanza del rapporto con fornitori e clienti come snodo per la conoscenza del mercato e la crescita dell’azienda.
Sembra un mondo ideale, forse anche troppo nella scansione di valori che non sono solo produttivi ma anche sociali: eppure è questa la realtà che ha costruito l’Italia manifatturiera di questi anni e che è poco conosciuto nei suoi valori, nelle sue aspirazioni, nei suoi modi di comportamento che ne hanno fatto un tessuto produttivo forte anche se con le sue fragilità, dice Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione.
Le 1600 aziende censite da un gruppo di professori universitari coordinati da Carlo Lauro (Università di Napoli), sono piccole, ma non piccolissime (vanno dai 15 dipendenti in su) distribuite tra Nordest (36%) Nordovest (36%) Centro (18%) e Sud e Isole (14,5%). Risultano guidate da imprenditorimanager più giovani di quanto ci si possa aspettare (il 62% ha tra i 30 e i 50 anni) e che, per quasi la metà, sono ancora alla prima generazione (un terzo è già alla seconda). Sono per lo più aziende solide, abituate a stare sul mercato, (l’84% ha più di dieci anni di vita), ormai internazionalizzate (metà di queste esportano e un quinto produce all’estero). Ovviamente tra i loro obbiettivi prioritari c’è la crescita del profitto, delle quote di mercato e del fatturato, elementi essenziali per la competitività. Ma dalle risposte date intorno al sistema di valori sui quali si basa questo mondo emergono anche molti altri spunti.
Per quanto riguarda la gestione dell’azienda e il suo mondo interno la quasi totalità delle aziende considera prioritario, accanto all’obbiettivo di massimizzare il profitto, anche quello di creare posti di lavoro. E’ convinta che la valorizzazione degli aspetti umani e della libertà di chi agisce in azienda migliori il profitto dell’impresa. Gran parte degli imprenditori intervistati si dice aperta al confronto tra con i dipendenti e collaboratori nella conduzione dell’impresa ed è d’accordo che si debba valorizzare il capitale umano con risorse interne prima ancora che con il sostegno fiscale. Ecco qui dice Lauro dove emerge la sussidiarietà cioè un modello che combina requisiti economici, necessari per poter competere sul mercato, con valori più ampi legati al benessere collettivo come il sostegno all’occupazione.
Ma è anche nella concezione del mondo esterno che emergono le differenze che hanno diviso questo mondo da quello della grande impresa e dai modi in cui questa viene percepita. Non si vogliono situazioni di monopolio o zone protette da rendite di posizione. La quasi totalità degli intervistati ritiene indispensabile sia la semplificazione amministrativa e fiscale, (con una prevalenza schiacciante del Nordest rispetto al Nordovest), sia maggiore libertà e decentramento sul mercato (anche qui con una prevalenza del Nordest). Anche rispetto alla contrattazione salariale c’è un prevalenza di imprenditori che si dicono a favore di un decentramento anche se con qualche distinzione: poco più di un terzo (36%) delle piccole e medie aziende dice di preferire la contrattazione decentrata rispetto a quella nazionale, un altro 58% chiede un sistema misto e ponderato. Ma i piccoli imprenditori del Centro e del Nordest a maggioranza spezzano una lancia a favore di un sistema decentrato che prevalga su quello nazionale.
Il rapporto con i dipendenti è determinante per questo mondo, tanto che una maggioranza (sempre più forte a Nordest e Centro che a Nordovest) ritiene che la valorizzazione delle risorse umane migliori il profitto e debba essere sostenuta dall’impresa. Ma lo stesso avviene con tutta la rete esterna all’azienda. Sia i fornitori che i clienti vengono ritenuti un patrimonio fondamentale per l’impresa. Un asset da coltivare, soprattutto prezioso, a quanto dicono le risposte, nelle medie aziende. E, almeno nelle intenzioni della maggioranza degli imprenditori, c’è una volontà di mettere insieme le forze sia per promuovere la ricerca che l’internazionalizzazione che la tutela degli interessi presso le istituzioni pubbliche.
Ovviamente non è tutto rose e fiori quel che viene dal mondo della piccola e media impresa. Ci sono zone grigie e elementi di fragilità che emergono dall’analisi dei dati. Una parte delle imprese, soprattutto al Centro e al Sud, non condivide i valori di questo mondo, cioè né la valorizzazione delle risorse umane, né l’internazionalizzazione e nemmeno la necessità di progetti comuni per la ricerca e sviluppo. Ci sono poi, al di là delle opinioni espresse, che possono, nel caso di interviste, essere più nobili dei comportamenti effettivamente seguiti, alcuni fattori di criticità oggettiva: un fatturato troppo modesto (il 50% delle aziende non supera i 2 milioni), un’internazionalizzazione ancora poco diffusa dato che solo il 21% delle imprese produce fuori dall’Italia, la modestia delle cifre dedicate alla ricerca, una quota ancora alta (quasi il 30%) di imprese che non spende nulla per la formazione del personale. Ci sono stati sicuramente progressi dice Sergio Sciarelli, uno degli economisti che ha discusso il Rapporto ma è ancora lungo e non facile il cammino da compiere lungo la strada che dovrebbe portare a un sistema imprenditoriale e sociale contraddistinto da valori di più elevata moralità e di più avvertita partecipazione alla vita della collettività.
(Alessandra Carini)