In questi ultimi giorni i mercati sembrano aver dato una tregua all’Italia. La Borsa va meglio del solito. Lo spread non aumenta. Si stanno realizzando “le promesse dell’alba” per parafrasare il titolo di un bel romanzo di Romain Gary (scrittore francese troppo presto dimenticato per non aver mai fatto parte né della droite più accesa, né tanto meno della gauche, nonché per avere avuto Charles De Gaulle come suo testimone di nozze nella cattedrale di Bangui ai tempi di France Libre), oppure siamo a “l’ultima notte di quiete” per mutuare il titolo di un bel film di Valerio Zurlini.
Il “bailamme”, invece, continua non solo per le ragioni delineate in un mio precedente articolo, ma anche perché, a quel che si sa, gran parte delle misure proposte dal Governo italiano ai partner non sono state accolte e il vertice europeo di fine settimana prossima minaccia di trasformarsi in una sconfitta per l’esecutivo. Ci sono, soprattutto, determinanti specifiche, politiche ed economiche su cui non si sta ponendo sufficiente attenzione. Ma che i mercati guardano con preoccupazione, anzi ansia.
In primo luogo, se si votasse oggi il primo partito sarebbe verosimilmente il Pd (un quarto circa dei voti), seguito dal Movimento Cinque Stelle (con il 20% dei suffragi). Gli investitori esteri non vedono come con un assetto politico del genere si riesca a fare traghettare il Paese verso una sponda più moderna e più giusta. Lo stesso disegno di Monti – di ascendere al Quirinale e di costruire, dal Colle più alto, una serie di “governi del Presidente” – pare poco realistico. Da Los Angeles, lo dicono a tutto tondo i gestori di Pimco (il maggior conglomerato di fondi obbligazionari) ai loro clienti. Aggiungendo che non si vede ombra di riforma costituzionale che riduca drasticamente quei costi della politica che frenano la produttività italiana.
In secondo luogo, non si è fatto nulla per affrontare quello che, dopo i costi della politica, è il secondo freno all’economia italiana: le rendite. Questo sarebbe dovuto essere il compito precipuo di un Governo tecnico: dato che non cerca voti, o combatte le lobby delle rendite o ne è prigioniero. Lo scrive a tutto tondo il “Temi di Discussione” n. 830 della Banca d’Italia: se avessimo ridotto del 15% – appena del 15% – le rendite (da quelle dei taxi a quelle delle autostrade, da quelle delle farmacie a quelle dei notai), il Pil sarebbe aumentato di nove punti percentuali negli ultimi sette anni (rispetto all’evoluzione deludente che ha avuto). Il decreto Cresci Italia non sfiora neanche le rendite. I gestori ne traggono le conclusioni: è bene stare lontani da dove dominano le satrapie e i califfati. E negli ultimi sette anni, dati Istat alla mano, il manifatturiero è passato dal 22% al 15% del Pil.
In terzo luogo, con buona pace del coretto a cappella che intona le virtù delle Piccole e medie imprese italiane (Pmi) – molte delle quali hanno trasferito i loro impianti all’estero – il gap tra l’innovazione del settore produttivo italiano e quella del resto del mondo è in rapida crescita. L’Occasional Paper n.121/2012 della Banca d’Italia non solo analizza il problema, ma indica alcune soluzioni. Auguriamoci che tra viaggi, conferenze stampa, dichiarazioni estemporanee, crisi di astinenza da video, tra Palazzo Chigi e dicasteri economici, qualcuno lo legga e ne tragga le conclusioni.
In quarto luogo, economisti di scuola marxista (Janossy) e liberale (Kindleberger), pur non conoscendosi e non avendo accesso ai lavori l’uno dell’altro, hanno da decenni convenuto che le risorse umane sono state la molla del “miracolo economico”, dell’industrializzazione, del progresso tecnico in Italia. Non bisogna andare lontano: l’Occasional Paper N. 122 del 2012 sempre della Banca d’Italia delinea un programma di come migliorare il nostro sistema d’istruzione.
Professori, si tacciano, vadano meno in televisione, dichiarino poco, ma studino e facciano.