La sindrome ateniese si sta sperimentando a Genova, un’altra città di mare e di porto come Atene, però in Italia, e non in Grecia. È la sindrome della vendita, e forse dell’inevitabile svendita, delle ultime aziende italiane appetibili per il capitale straniero. Una svendita dettata dagli stranieri per avvantaggiare altri stranieri a spese dell’economia italiana, mentre sul ponte del bastimento tricolore chi tiene il timone canta a squarciagola “tutto va bene madama la marchesa”.
Perché Genova? Perché qui un gruppo di tedeschi – quelli che guidano la vigilanza della Banca centrale europea – ha chiamato un gruppo di americani, che posseggono l’Apollo Fund, dicendogli di comprare la Banca Carige, una delle banche di interesse europeo, dove pure governa un azionariato nuovo, locale, che c’ha messo dei soldi veri. E questo colosso americano, un fondo specializzato nei “distressed asset”, cioè nella gestione dei crediti incagliati, ha calato l’asso di denari: 700 milioni di euro per comprare un “pacchetto” di 3,5 miliardi di sofferenze, valutandole circa il 20% perché conta di “realizzarle”, invece, ad almeno il 35% del loro valore (insomma, sia chiaro: non li compra per beneficenza). In più, altro asso: 500 milioni di aumento di capitale per rifinanziare la banca diventandone primo azionista; e in più, ancora, un’Opa per sfamare anche l’azionariato minore di Carige, compreso il primo socio Malacalza, che dopo l’aumento (se passasse in assemblea) sarebbe diluito a secondo…
Andrà così? A Genova stanno organizzando la resistenza, ma visto il divario dimensionale e il diktat della Bce (che Malacalza ha smentito, ma non è che vanno a dirglielo a lui, quelli di Francoforte) arginare Apollo Fund per i soci genovesi di Carige è come andare alla guerra coi fucilini a tappo.
Qualche chilometro più in là ed ecco l’Ansaldo Sts, un assoluto gioiello tecnologico che la Finmeccanica di Mauro Moretti ha venduto ai giapponesi dell’Hitachi. E già su questa vendita si è discusso molto, perché l’azienda era sana, guadagnava (e guadagna) e poteva tranquillamente andare avanti da sola. La tesi era che Finmeccanica non poteva finanziarne la crescita come avrebbe dovuto e che quindi, per il bene della Sts, era meglio venderla. Dicono i detrattori che invece la cessione dell’Ansaldo Sts sia stata la condizione pretesa da Hitachi, e concessa da Finmeccanica, in cambio del fatto di sciropparsi anche la vera gatta da pelare, cioè l’Ansaldo Breda, che nessuno sul mercato voleva. Ora, a parte che sul prezzo dell’Opa con la quale Hitachi deve togliere Sts dalla Borsa (se riesce a offrire un prezzo congruo: il primo tentativo è fallito) c’è un’inchiesta penale, la “soft integration” che era stata promessa da Finmeccanica agli interessati, a valere sulle intenzioni dei giapponesi, si sta rivelando una “hard integration”, con le dimissioni del Consiglio d’amministrazione dettate da Tokyo per rieleggerne un altro tutto giallo. Altro che soft.
Questo il panorama ligure, cui va aggiunta l’Ilva di Cornigliano, gioiello della corona di un gruppo devastato da tre anni di gestione commissariale inefficace e dal “bubbone” ambientale dello stabilimento di Taranto: l’Ilva genovese, se va bene, passerà ai turchi di Erdemir, disposti – bontà loro – a creare una cordata con dei soci italiani, Arvedi e/o Marcegaglia.
Poco più a Sud c’è il Monte dei Paschi di Siena, 23 miliardi di sofferenze figlie dell’antica “malagestio”, banca oggi invece ben gestita ma a corto di capitali: il Tesoro salirà in estate dal 4% al 7%, ma servono un paio di miliardi (almeno) di aumento di capitale e non si è visto finora chi possa metterli se non qualche altro Apollo di turno.
Il quadro bancario del resto è tutto mercé degli stranieri. In Veneto, ad esempio, Veneto Banca e la Popolare di Vicenza sono alla vigilia di due aumenti di capitale monstre, caldeggiati e anzi imposti dalla Bce, che “pesano”, insieme con quello in arrivo per la nascente aggregazione tra il veronese Banco Popolare e la Banca Popolare di Milano, circa 3,75 miliardi di euro, che nessun socio italiano sembra avere, o comunque aver voglia di mettere in gioco. Chi, se non qualche bestione straniero, potrà intervenire a trasfondere sangue monetario nelle flosce arterie di Vicenza e Veneto Banca? All’appello dovrebbe arrivare per prima la Banca popolare di Vicenza, e a oggi il “garante” Unicredit non sa con chi suddividere l’onere del miliardo e mezzo di euro da trovare, avendo esso stesso una situazione patrimoniale sana, ma delicata… E a ben guardare il loro azionariato attuale è già più estero che italiano, perché ai primi posti tra i soci di capitale di queste banche cooperative in procinto di diventare (o appena diventate) società per azioni ci sono appunto fondi internazionali. Come accade del resto perfino in Unicredit.
Ci sono poi le quattro “good bank” nate dalle ceneri del fallimento (pardon, adesso si dice con parola garbata “risoluzione”) di Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti: sono in vendita, quale acquirente italiano potrà mai comprarsele?
In un Paese la cui Confindustria ha appena varato la sua autoriforma secondo i dettami di un imprenditore, Carlo Pesenti, che ha appena scelto di vendere agli stranieri (ancora tedeschi) il gruppo di famiglia che pure andava bene e non aveva alcun bisogno di essere venduto… quali capitali privati potranno mai essere suscitati, e da quali tasche, per contribilanciare il deflusso di patrimoni aziendali verso l’estero?
È quel che si è concretizzato palesemente in Telecom Italia, del resto, con la presa di potere del colosso francese Vivendi: che se non altro fa sul serio… ma sempre straniero è.
E non lasciamoci intontire da chi blatera che una proprietà straniera è identica a una nazionale ai fini del benessere economico di una nazione. È falso, innanzitutto perché quando l’azienda va bene i suoi dividendi defluiscono verso tasche estere e non si fermano entro i nostri confini; e poi perché quando l’azienda va male, le logiche che ne dettano la ristrutturazione rispondono prioritariamente a esigenze esterne all’Italia prima che a quelle interne. Chiedere alla Parmalat per farsi raccontare come si sente dopo tre anni di gestione francese.