Certo, difendere una difesa ha del paradossale. Tuttavia, è ancor più paradossale trarre spunto dalle motivazioni difensive rese dall’Avvocatura Generale dello Stato nel corso del giudizio di costituzionalità del c.d. Lodo Alfano, per argomentare e denunciare strategie e complotti istituzionali. Che questo avvenga, dà la misura del tipo di dibattito politico che è in corso; più ancora, rende l’idea della crisi (oramai anche logica, oltreché deontologica) in cui la conflittualità della Seconda Repubblica ha fatto precipitare il Paese.
Non che, ovviamente, una difesa giudiziaria non possa essere criticata. E anzi, il fatto che essa, a sua volta, necessiti di essere difesa, se non altro ne denunzia una qualche debolezza tecnica (il che, per inciso, smentisce ulteriormente la tesi complottista della regia governativa sottesa alle affermazioni dell’Avvocatura). Sorprende, piuttosto, il fatto che un’eventuale carenza di motivazioni tecnico-giuridiche possa prestarsi a ingenerare (inverosimili) fraintendimenti politico-istituzionali; che singole frasi di una difesa, astratte dal proprio contesto, possano essere utilizzate per allarmare e confondere ulteriormente un’opinione pubblica sempre più disorientata.
Eppure, proprio questo è accaduto. Talune affermazioni difensive dell’Avvocatura sono servite per tacciare di “scorrettezza istituzionale” il Governo, accusato di voler creare “una nuova forzatura istituzionale, una sorta di questione di fiducia anche davanti la Corte costituzionale”; sicché quest’ultima, condizionata dal “peso delle conseguenze politiche” paventate dall’Avvocatura, non sarebbe più libera di “giudicare solo secondo Costituzione”. Di qui, per l’appunto, l’avvio di una nuova polemica mediatica a tutela della libertà di giudizio della Corte costituzionale.
Quanto denunciato, tuttavia, oltre a non essere veritiero, non è nemmeno verosimile. Argomentando secondo prassi a sostegno della legge sottoposta a giudizio, l’Avvocatura ha prospettato in via di fatto le conseguenze che graverebbero sulle cariche istituzionali, ove private della garanzia della sospensione del processo penale prevista dal c.d. Lodo Alfano; fra tali conseguenze potrebbe anche esservi quella delle dimissioni del Presidente del Consiglio.
Scrive l’Avvocatura: “Chi ha la responsabilità della politica generale del Governo deve anche potervi dedicare tutto il tempo necessario, con la dovuta serenità e senza condizionamenti (…). È facilmente immaginabile come sarebbe giudicato un Presidente del Consiglio dei ministri che per le proprie necessità di difesa in un processo penale trascurasse le sue funzioni. Gli sarebbe sicuramente addebitata una grave responsabilità, anche se solo politica, per avere anteposto i suoi interessi personali a quelli generali. Se l’incompatibilità durasse a lungo, per sottrarsi alla responsabilità politica senza pregiudicare il suo interesse alla difesa, potrebbe trovarsi anche nella necessità delle dimissioni”.
Si tratta, com’è evidente, di un’affermazione resa in via ipotetica e astratta, che non può prestarsi a fraintendimenti di sorta, pur essendo suscettibile, ovviamente, di valutazioni giuridico-costituzionali anche di differente tenore. Dove sarebbero le indebite pressioni alla Corte e la denunciata scorrettezza istituzionale? Si è replicato che l’Avvocatura non avrebbe dovuto prospettare alcuna conseguenza sul piano politico, posto che la Corte fonda le proprie decisioni unicamente sulla base delle norme costituzionali e non dei “fatti”.
Nemmeno tale replica, tuttavia, è corretta. Come s’insegna nei manuali universitari, se è vero che la Corte non si occupa precipuamente dei “fatti”, è pur vero che nemmeno si occupa di norme “in astratto”, bensì di norme “in concreto”. La valutazione dell’impatto sociale (politico, istituzionale, finanziario, etc.) derivante dall’eventuale annullamento della legge sottoposta a giudizio, è necessaria per meglio comprendere la norma costituzionale sulla base della quale formulare la decisione richiesta.
Quando il “fatto” irrompe nel giudizio, in altri termini, la sua concretezza si manifesta in tutte le sue forme ed implicazioni, che devono essere pienamente considerate. A titolo esemplificativo, si pensi al caso delle sentenze che comportino nuovi e maggiori oneri per le finanze dello Stato, imponendo costose prestazioni sociali prima negate dalla legge. In detta ipotesi la Corte non può ignorare le conseguenze finanziarie derivanti dalla propria pronuncia, a meno di non voler decidere in modo astratto e potenzialmente inutile.
In senso analogo, si pensi al caso delle sentenze riguardanti i settori della bioetica, dell’alimentazione, dell’ambiente e di tutti quegli altri ambiti materiali che richiedono le specifiche cognizioni richieste dai fatti coinvolti. Anche in tali ipotesi la Corte non può limitarsi a decidere sulla base di astratte norme costituzionali, ignorando le conseguenze derivanti dalle proprie decisioni.
In pari modo, a proposito del c.d. Lodo Alfano, trattandosi di un “fatto” dalle valenze politiche, l’Avvocatura ha prospettato in modo generale e astratto le conseguenze politiche derivanti da un eventuale annullamento della legge. Se, dunque, le affermazioni rese rientrano nella prassi difensiva dell’Avvocatura, perché si è inteso denunciare in via politica e con il massimo clamore mediatico una linea difensiva strettamente processuale (eventualmente criticabile – si ribadisce – sul piano giuridico-costituzionale)? Forse che la Corte non è in grado di valutare da sé la correttezza costituzionale delle asserzioni formulate dall’Avvocatura? O forse che, essendo in grado di farlo, non si tema piuttosto la relativa libertà di giudizio?
Di certo, la Corte deciderà nella sua collegialità in piena indipendenza (come al solito, tenendo anche conto delle inevitabili conseguenze derivanti in via generale e astratta dalle proprie decisioni).