Non si può non concordare con Alessandro Penati quando – nella sua autorevole rubrica del sabato su Repubblica – teme che l’ennesimo brusco aggiustamento al vertice delle Generali somigli più al “falso movimento” del Gattopardo che allo scatto del Leone. L’economista della Cattolica – attento osservatore dei nessi tra grandi imprese e mercati – legge i sussulti della maggiore istituzione finanziaria italiana (la più storica delle “blue chip” di Piazza Affari) su un piano molteplice: nei giorni di una svolta più che traumatica di FonSai, il sistema-Paese sembra non poter contare neppure sul leader storico del settore assicurativo. E i motivi di preoccupazione sono da ricercare nei rapporti di “governance” tra azionisti e top management, dove al “colpevole” (l’Amministratore delegato rimosso Giovanni Perissinotto) non vanno necessariamente caricate tutte le “colpe” (in controluce, è chiaro che Penati scorge anche una crisi più ampia in cui le strutture di governo del Paese e gli “stakeholder” – imprese e organizzazioni sindacali – hanno cessato di operare in modo efficiente ed efficace).
Le Generali sono finite in una stasi progressiva in un decennio in cui gli scenari economico-finanziari sono diventati oltremodo severi: anche prima che deflagrasse la crisi bancaria globale. E se Penati non è affatto tenero con Perissinotto – che ha tardivamente tentato di addossare a Mediobanca un ruolo di tutela negativa del management – tuttavia non è vicino neppure a Leonardo Del Vecchio, l’imprenditore che – con le sue critiche aperte – era parso interpretare in modo più proprio la funzione di investitore attento a incalzare la dirigenza quando non riesce a esprimere tutto il valore presente nell’azienda.
Secondo Penati – che vanta una lunga esperienza nell’asset management istituzionale – il legame uterino tra la compagnia di Trieste e l’istituto di Piazzetta Cuccia non è neppure il problema prioritario. Se le Generali, nell’ultimo ventennio, hanno mediamente performato peggio del settore vi sono cause specifiche: un ritardo nell’affrontare tempestivamente un’era di “vacche magre” caratterizzata anzitutto da tassi a lungo termine incapaci di remunerare polizze, costi e capitale investito dagli azionisti. Per non parlare dell’immobiliare, “sgonfiato” senza pietà dallo scoppio delle bolle. Quindi – dice Penati, esperto scienziato della finanza di mercato -, alle Generali “occorre cambiare radicalmente le gestione degli investimenti e la capacità di assumere rischi”.
Ed è una “rivoluzione copernicana” cui tutti – in azienda – dovranno adeguarsi: non solo il nuovo Ceo Mario Greco, ma i grandi soci stessi (ancora una volta, la penna di Penati sembra pantografare nella “metafora Generali” le traversie di un Paese che deve rimisurare tutti i suoi standard. A cominciare, guarda caso, dalla “capacità di assumere rischi”: sia per chi le imprese le crea o le trasforma, sia per chi deve affrontare il rischio imprevisto di cambiare lavoro o impresa).