“Perché le banche non prestano soldi?”: è la domanda che mi sono sentito rivolgere spesso qualche anno fa, soprattutto da gente alla ricerca di mutui con un piano di rimborso all’altezza delle loro possibilità. Per la verità, oggi la situazione è cambiata e i tassi di interesse si sono notevolmente ridotti: a ottobre 2015 il tasso medio sul totale dei prestiti ha toccato il minimo storico, risultando pari al 3,33% (6,18% a fine 2007), mentre il tasso medio sui nuovi mutui per acquisto abitazioni è pari al 2,61% (5,72% a fine 2007). A ciò hanno concorso diversi fattori, tra cui la politica espansiva della Bce che ha contribuito in misura considerevole al quasi azzeramento dei tassi interbancari e, quindi, al basso costo dei prestiti.
Esistono, tuttavia, alcuni problemi che si trascinano da tempo: l’ammontare dei crediti in sofferenza, quelli cioè che è divenuto impossibile riscuotere, è cresciuto fino a 200 miliardi di euro per l’intero sistema bancario italiano: si tratta di una cifra enorme, che richiede ulteriori accantonamenti da parte delle banche per far fronte, diciamo, all’insolvenza dei debitori. Ciò si trasmette all’intera filiera del credito e, insieme a più severi presidi di controllo di fiducia e di qualità dovuti a procedure interne, frena le nuove erogazioni.
Per questo motivo, negli anni passati, i principali Paesi europei (ed extra-europei) hanno adottato le necessarie contromisure: la creazione cioè di “banche cattive” (“bad bank”) per raccogliere le sofferenze e consentire alla parte sana della banca interessata dal dissesto di tornare alla tradizionale attività e stimolare l’economia nazionale in fasi delicate. Nel 2008, ad esempio, il governo tedesco stanziò 480 miliardi di euro per l’acquisto dei titoli deteriorati nei bilanci delle proprie banche; nell’operazione con la Commerzbank, salvata con 90 miliardi di euro, lo Stato assunse anche il controllo azionario del 25% del capitale a titolo di garanzia.
Più o meno la stessa cosa venne fatta in Spagna nel mese di giugno 2012, con la creazione di una “bad bank” di sistema e la richiesta di intervento dell’Ue per la ristrutturazione e la ricapitalizzazione del sistema bancario spagnolo; precedentemente, il premier socialista Zapatero aveva varato, nel 2009, un programma di finanziamento straordinario a favore del settore bancario in crisi.
Quanto all’Italia, diversi commentatori vedono oggi molto male la posizione dell’Unione europea, che, almeno fino a pochi mesi fa, sembrava considerare la creazione di una bad bank italiana alla stregua di aiuti di Stato. Senza nulla togliere alla correttezza e alla comprensibile insofferenza di tali commenti, la bad bank avrebbe dovuto essere realizzata anni fa, ma tra governi tecnici, scelte sicuramente non premianti sul piano elettorale e facili populismi non se n’è mai fatto nulla. Nel frattempo, le banche italiane, che, è bene ricordarlo, differentemente da altri Paesi sviluppati non hanno comportato grossi esborsi di denaro pubblico, si sono industriate per gestire in casa il credito problematico: costituendo internamente società o unità di business dedicate, o stipulando accordi con società estere specializzate in questo settore.
Il Consiglio dei ministri del 22 novembre, sfruttando le nuove norme europee sulla risoluzione delle crisi bancarie (la cosiddetta “BRRD”, Bank Recovery and Resolution Directive) recepite nell’ordinamento italiano lo scorso mese, ha varato un decreto legge per il salvataggio di quattro banche locali (Banca delle Marche, Banca dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio di Chieti) che, forse per una gestione troppo politicizzata del credito frequente a livello locale, erano ormai sull’orlo del fallimento.
Sono state così costituite quattro “banche buone” (“banche ponte” o “bridge bank”) dove sono confluiti gli attivi diversi dai crediti in sofferenza, gestite con la supervisione della Banca d’Italia, con lo scopo di vendita sul mercato. È stata inoltre costituita un’unica “banca cattiva” (“bad bank”) in cui sono stati concentrati i prestiti in sofferenza, svalutati di 1,5 miliardi (dal valore originario di 8,5 miliardi), che saranno collocati a società specialiste del settore.
Semplificando, si può dire che si è provveduto a separare la parte sana dalla parte malata delle banche in crisi, con l’obiettivo di cedere entrambe, la prima ad altri competitor, la seconda a operatori specializzati nel recupero crediti. La domanda viene quasi spontanea: chi paga?
In prima battuta, il costo dell’operazione è stato supportato, per circa 730 milioni di euro, dagli azionisti e dai possessori di obbligazioni subordinate delle quattro banche, cioè dai risparmiatori che avevano investito in titoli emessi dall’ente creditizio, consapevoli o meno che a fronte di rendimenti maggiori non avrebbero avuto alcuna tutela in caso di fallimento dell’istituto, essendone il rimborso subordinato a quello dei creditori ordinari.
Il resto è stato posto a carico del Fondo di Risoluzione, previsto dalla nuova normativa e amministrato dalla Banca d’Italia. L’impegno del Fondo di Risoluzione ammonta complessivamente a circa 3,6 miliardi di euro, anticipati dalle tre principali banche italiane (Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi Banca), che hanno apportato la liquidità necessaria all’avvio dell’operatività del Fondo neocostituito, con scadenza a 18 mesi: in sintesi, si sono ripartite le perdite, sia pure in via temporanea.
Il finanziamento è garantito da Cassa depositi e prestiti (Cdp), quindi ultimamente dallo Stato, ma il suo intervento opererebbe soltanto in caso di incapienza del Fondo di Risoluzione; si tratta di un evento assai improbabile considerato che, in base al decreto legge di dieci giorni fa, il meccanismo di finanziamento del Fondo prevede la facoltà di ricorrere a contributi straordinari in misura determinata dalla Banca d’Italia a fronte delle obbligazioni assunte e, solo per il 2016, l’incremento di due volte l’importo annuale dei contributi da parte del sistema bancario.
La “bad bank” si è costituita con soldi privati: questo spiega la particolarità italiana e il disappunto dei banchieri.