Camera e Senato Usa hanno raggiunto un accordo sulla versione definitiva del piano da 789 miliardi di dollari di aiuti, che allo stato delle cose sembra prevedere un ruolo “pivot” della Federal Reserve. Anche se non è ancora chiaro come il Tesoro intenderà gestire la spinosa questione dei titoli tossici. Così, mentre i principali quotidiani Usa hanno criticato il piano per la sua indeterminazione, tre giorni fa il premio Nobel Nouriel Rubini diceva ai lettori del Ft che “il modello anglosassone è fallito”, poiché non è affatto certo che i sistemi finanziari riescano a far fronte al crack sistemico. Ilsussidiario.net ha chiesto a Federico Rampini, corrispondente da Pechino di Repubblica, di far luce sull’attuale situazione economica. A cominciare dagli Usa, per arrivare all’altro gigante dell’economia mondiale. Perché se è vero che Usa ed Europa sono i più colpiti dalla crisi, anche la Cina, dove il premier Wen Jiabao ha messo in preallerta l’esercito per prevenire eventuali disordini, soffre il morso della crisi globale.
Negli Usa i mercati sembrano non apprezzare la vaghezza di informazioni relative a piani anticrisi sempre più costosi, ultimo in ordine di tempo quello di Geithner.
Non darei per scontato che il giudizio negativo dei mercati finanziari sia esteso a tutta la politica economica di Obama, ivi compresa la manovra da 800 miliardi di dollari – 789, per la precisione – previsti per il rilancio della crescita. Senza dubbio c’è stato un giudizio negativo quando il segretario al Tesoro Tim Geithner ha presentato un nuovo piano salva banche, per tanti motivi: Wall Street è stata delusa dal fatto che a quel piano mancavano ancora troppi dettagli, e soprattutto si aspettava più generosità nel dispositivo che serve a sgravare i bilanci delle banche dai titoli tossici. Su questo è evidente che Geithner è in una “strettoia”.
Si riferisce alle incertezze che ancora gravano sul piano?
Geithner non può permettersi di dare la sensazione che sia in arrivo un ennesimo, costosissimo regalo alle banche. Le incertezze che trapelano dal piano Geithner derivano da una obiettiva difficoltà politica: salvare le banche rispettando la sensibilità dei contribuenti americani, che hanno tutte le ragioni per essere indignati.
Obama ha garantito che un organismo vigilerà sulla spesa di “ogni singolo dollaro del piano” di rilancio…
Si sono visti fallire troppi piani, da quello di Paulson che doveva servire a ricomprare i titoli tossici ma non ha funzionato, a quello Gordon Brown di ricapitalizzazione. Giavazzi ha acutamente notato che con i soldi spesi finora – stimati in circa 10 trilioni di dollari – lo Stato americano avrebbe potuto ricomprare i mutui di tutte le famiglie americane.
Dalla Cina arrivano indicazioni apparentemente contraddittorie. È diventata il primo mercato di auto al mondo, ma il suo Pil è in drastica frenata. Che cosa sta accadendo nell’altra grande potenza dello scenario globale?
Il sorpasso dell’automobile è un sorpasso “all’indietro”: è la frenata americana che ha fatto precipitare i consumi e gli acquisti di auto sul mercato interno americano al di sotto dei 10 milioni di vetture vendute l’anno, mentre la Cina sta superando questa soglia. Ma attenzione, stiamo parlando di consumi e di domanda, non di produzione. La Cina ha ancora un mercato di prima motorizzazione, dove ci sono milioni di famiglie del ceto medio che non hanno ancora un’automobile ma vogliono comprarla e ne hanno i mezzi. È un mercato profondamente diverso da quello americano, che ormai è un mercato di sostituzione.
Ma la crisi è arrivata anche in Cina, o no?
È verissimo che l’economia cinese è fortemente dipendente dalle esportazioni e che un crollo della domanda globale che colpisce in simultanea i suoi mercati maggiori, nell’ordine Ue, Usa e Giappone, ha già avuto un effetto pesante sulla Cina: mentre l’intero tasso di crescita nel 2007 aveva raggiunto la cifra record del 13 per cento, nell’ultimo trimestre del 2008 è sceso al 6,8 per cento, il che significa una crescita dimezzata. Ma occorre dire che stiamo parlando comunque di un’economia che cresce, non di una recessione a differenza di Usa, Ue e Giappone.
Cosa vuol dire, per la Cina, un tasso di crescita del 6,8 per cento? È una crescita che rappresenterebbe il sogno di ogni altra economia industrializzata.
Per la Cina il 6,8 per cento è quasi una recessione in termini sociali: è una crescita largamente insufficiente per le dimensioni demografiche e le caratteristiche di un mercato del lavoro abituato a fare i conti con 15 milioni di contadini poveri che lasciavano ogni anno le campagne per andare a lavorare in città nelle fabbriche, più 6 milioni di giovani che escono dal sistema scolastico con un diploma o una laurea. Se un’economia del genere non crea 20 milioni di nuovi posti di lavoro ogni anno, sono guai seri per la stabilità sociale del paese.
Qual è la situazione attuale? Si temono disordini interni legati alla perdita di posti di lavoro?
Il tasso di conflittualità sociale è aumentato a dismisura, al punto che i dirigenti cinesi ne parlano in modo ormai aperto. Suona in modo inquietante il recente appello di Hu Jintao – giova ricordare che oltre essere presidente della Repubblica e segretario del Partito comunista è anche capo supremo delle Forze armate – all’esercito di tenersi pronto per garantire l’ordine e la stabilità sociale. È un segno della tensione che si respira. L’ultima volta che l’esercito fu chiamato in funzioni di ordine pubblico fu vent’anni fa, a Piazza Tien an Men.
Il modello competitivo della Cina saprà evolversi di fronte alla crisi? Come lo farà?
Il modello cinese era destinato ad evolversi prima ancora che arrivasse la crisi e i segnali sono già visibili da tempo. Un esempio per tutti è quello della regione del Guandong, dove c’è la più grande concentrazione industriale del paese. Da almeno un paio d’anni è l’oggetto di un esperimento di politica economica basato sul miglioramento dei diritti sociali dei lavoratori, su regole ambientali un po’ più severe e anche – a livello nazionale – su una certa rivalutazione del renmimbi, che negli ultimi quattro anni non è stata forse spettacolare come l’avrebbero desiderata europei e americani, ma che ha fatto guadagnare alla moneta mediamente il 20%.
Quali sono i tratti salienti di questa politica economica “anticrisi”?
Si tratta indubbiamente di un’evoluzione pilotata dall’alto, ma in modo lungimirante. Il governo intende spingere l’industria ad abbandonare il vecchio modello di sviluppo fondato essenzialmente sui bassi salari e a specializzarsi su settori a più alta intensità di ricerca tecnologica e di innovazione. Sa benissimo che la crisi mette allo scoperto tutte le fragilità legate ad un modello troppo dipendente dalle esportazioni. D’altra parte la Cina già l’anno scorso ha superato gli investimenti in R&S di tutta l’Ue, e ha sorpassato la Germania per numero di brevetti tecnologici internazionali depositati.
Il governo di Pechino ha ripensato la sua politica verso l’Ue? Guardando l’agenda del premier Jiabao nel suo ultimo viaggio in Europa, Davos compresa, si è avuta l’impressione di una modulazione differenziata, a seconda degli interlocutori.
Quando alla fine del 2007 il cancelliere tedesco Merkel ricevette il Dalai Lama ci fu una reazione durissima della Cina mirata verso la Germania e tesa a distinguerla dagli altri paesi Ue con strumenti di “dissuasione” economica e commerciale. La stessa cosa si è ripetuta alla fine del 2008 quando è stato Sarkozy a ricevere il Dalai Lama e anche in quel caso la Cina è stata molto dura con la Francia. La politica del cercare di dividere gli europei con politiche differenziate non è una reale novità. Ma io non esagererei la gravità di queste reazioni perché fanno parte di un atteggiamento storico. Né i tedeschi né i francesi hanno pagato un prezzo troppo elevato per aver osato “sfidare” il tabù del Tibet.
Una crisi economica, si dice, va saputa sfruttare per le sue opportunità. Quali sono quelle che il nostro paese non dovrebbe permettersi di perdere?
A Davos Wen Jiabao si è offerto anche come investitore: noi siamo pronti, ha detto, a darvi una mano in quanto investitori. Questo è senza dubbio un nuovo indirizzo strategico della potenza cinese di cui possiamo e dobbiamo essere pronti a sfruttare i vantaggi. La Cina non è soltanto una potenza esportatrice, è anche il più grande giacimento di capitali del mondo. Dobbiamo attrezzarci per essere più attraenti verso gli investitori cinesi. Ma gli investimenti diretti esteri che attualmente entrano in Italia sono una modesta frazione rispetto a quelli attratti da altri paesi europei, come Inghilterra e Francia.