Siamo in un momento della recessione globale dove i governi, finalmente, cominciano ad attuare qualche misura anticrisi, pur con enorme ritardo.
Dal settembre scorso, dopo che il fallimento di Lehman Brothers aveva fatto esplodere la crisi bancaria planetaria, era facile prevedere una deflazione finanziaria rapidissima che a sua volta avrebbe innescato una recessione violenta e globale. Infatti qui, allora, fu scritto.
Mentre le previsioni nel 2007 e nel 2008 erano state complicate dall’opacità del problema finanziario, dopo settembre, appunto, lo scenario era a binario. Ineluttabile. Ma in America, per cinque mesi, la politica ha parlato tanto e fatto nulla. Solo oggi c’è un piano anticrisi vero, pur ancora vago sul problema principale di bonificare i bilanci delle banche e così far ripartire il credito.
In Europa il ritardo ha assunto dimensioni persino surreali. Merkel a dicembre riteneva ancora non necessarie misure eccezionali anticrisi, salvo smentirsi il mese dopo. Sarkozy ha dichiarato per mesi che bisognava “rifondare il capitalismo”, ma, a parte qualche misura protezionista, altro non ha fatto di concreto. In Italia manco quella.
In generale, gli Stati sociali europei hanno esteso gli ammortizzatori sociali, ma senza tentare di invertire la crisi. Così si espongono al rischio, se la recessione dura più di un anno, di far saltare i bilanci pubblici. Comunque la buona notizia è che se ne stanno accorgendo – i dati di disoccupazione e chiusura di imprese sono impressionanti – e qualcosa stanno per fare. Ma la brutta notizia è che la politica, dappertutto, con poche eccezioni, in questa crisi trova ed applica soluzioni troppo lentamente. È ora di aprire la questione.
Al momento, infatti, le uniche misure anticrisi con efficacia sono quelle prese dalle Banche centrali, che stanno inondando di liquidità un mercato congelato, e quelle “passive” dovute al calo dell’inflazione, cioè dei prezzi e del costo del denaro che ricostruisce “naturalmente” la capacità di spesa delle famiglie.
Ma per evitare la disoccupazione e la crisi delle imprese sono necessarie misure straordinarie di taglio delle tasse e dei costi, nonché di credito d’emergenza. Non ci sono state in tempo utile né in America né in Europa e quindi la crisi ormai avrà un impatto grave.
Chi perderà il lavoro ringrazi la politica che ha perso tempo – non tutta, ma la maggior parte – e quei politici che hanno demonizzato l’economia finanziaria, perfino generando l’assurda idea che questa sia separata da quella reale, mentre le due sono un’unica cosa, invece di ricostruirla rapidamente. Trovare un capro espiatorio che riduca le proprie responsabilità è tipica reazione di autoprotezione dei politici. Non cascateci. Anche perché si può ancora attutire il peggio premendo sulla politica perché lavori meglio.
Tre misure, infatti, sarebbero salvifiche. Prima, non è possibile che ancora le autorità monetarie e i governi chiedano alle banche di svelare i loro bilanci. Entrino, via nuova legge internazionalmente coordinata, in quei bilanci con poteri di ispezione, valutino come bonificarli e facciano ripartire il credito.
Secondo, dimezzamento delle tasse sulle imprese in America ed Europa accettando un deficit pubblico elevato per due anni, con piano di rientro a dieci, certificato e retrogarantito, nell’eurozona, dalla Bce.
Terzo, creazione di uffici globale, nazionali e locali per la gestione di singole emergenze, una sorta di “protezione civile” economica.
La prima e la seconda raccomandazione sono di applicazione assolutamente necessaria e più urgente in Italia perché questa potrà ridurre le tasse meno di altri a causa del debito.