La pagliacciata, forse, è finita. Mentre scrivevo questo articolo, Matteo Salvini e Luigi Di Maio stavano per recarsi al Quirinale. Quindi, probabilmente, ora tutto sarà finalmente deciso: il nome del premier “terzo”, la squadra dei ministri, il programma di governo da clinica psichiatrica in fatto di coperture finanziarie. Lo spero, perché ormai stiamo davvero rasentando il ridicolo. Lo spero, ma davvero poco mi importa. E non solo perché, fiutando l’aria, il 4 marzo per la prima volta in vita mia mi sono rifiutato di votare, bensì perché ieri mattina – mentre tutti i media rincorrevano la strana coppia e si lanciavano in toto-nomi più o meno fantasiosi – è giunta la conferma che sembra porre il sigillo su quanto sta accadendo nel nostro Paese: ve lo dico da almeno dieci giorni che saremo il capro espiatorio e, contemporaneamente, il casus belli. Ora c’è la conferma. Giunta per bocca del membro del board Bce e governatore della Banque de France, Francois Villeroy de Galhau, il quale con la naturalezza con cui si ordina un caffè al bar, si è lasciato sfuggire, volontariamente, la seguente frase: «Che sia settembre o dicembre, il piano per la fine del Qe prosegue secondo le indicazioni. E ci vorranno trimestri, non anni, per arrivare al primo rialzo dei tassi».
Questo grafico ci mostra la sobria reazione del rendimento del Bund alle parole del banchiere centrale d’Oltralpe. Tutto vero? No. L’ennesimo stress test? In parte. Sicuramente un segnale chiaro al nostro Paese, visto che anche i sassi sanno che le condizioni macro dell’eurozona sono tutto tranne che in grado di reggere una normalizzazione delle condizioni monetarie, figuriamoci una loro – seppur inizialmente limitata – contrazione attraverso l’aumento dei tassi. Le prospettive inflazionistiche sono lungi dall’avvicinarsi al mitologico 2%, l’economia tedesca flirta con la recessione, in Francia l’agenda riformista di Macron, soprattutto riguardo al mercato del lavoro, si sta scontrando contro scioperi a oltranza e sondaggi sulla fiducia verso l’Eliseo decisamente poco incoraggianti: davvero la Bce intende chiudere i rubinetti?
Impossibile, per il semplice fatto che la sola fine del programma di acquisto di bond corporate innescherebbe una potenziale catena di default aziendali capace di farci ripiombare in pieno 2011, visto che a quel punto anche il debito sovrano non godrebbe più dello schermo dell’Eurotower in difesa dalla speculazione. Oltretutto, in pieno bailamme geopolitico e commerciale. Non solo gli Usa minacciano sanzioni molto dure verso le aziende europee che continueranno a fare affari con l’Iran, ma ora Donald Trump pare intenzionato a giocare anche la carta dei dazi del 20% sulle importazioni di automobili europee, il tutto per cercare non tanto di tutelare la produzione Usa, ma di smaltire in qualche modo l’iper-produzione da aiuti federali che in questi trimestri ha permesso al mercato automotive di restare a galla e alle finanziarie di erogare prestiti subprime, poi prontamente cartolarizzati e messi in circolo nelle vene ancora bucherellate dalla bolla immobiliare del corpaccione sociale statunitense. Il tutto, arrecando danno alla sempre più ribelle meno affidabile Germania.
Perché, quindi, alla luce di questo quadro, la Bce dovrebbe seguire l’esempio un po’ omicida della Fed, visto quanto sta già accadendo sui mercati emergenti con il rafforzamento del dollaro? Ma soprattutto, perché Villeroy è saltato fuori dal nulla con questa minaccia quasi terroristica, se lo stesso Mario Draghi da almeno dieci giorni ha smesso di predicare calma e comincia a parlare sempre più chiaramente e frequentemente di rischio al ribasso in perenne e preoccupante aumento? Il gioco è sempre lo stesso, cercare l’incidente che consenta un cambio di direzione politica di 180 gradi, ma senza perdere quel residuo di credibilità ancora presente presso i mercati.
A differenza della Fed, però, la Bce non può contare sull’extrema ratio del warfare, perché l’Ue non è soggetto bellico, né belligerante: al massimo, si accoda ai raid altrui per piaggeria. Serve quindi una crisi interna, esattamente come quelle che si sono susseguite ciclicamente dal 2009 in poi: Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Cipro. E Italia. Ed eccoci alla cronaca di queste ore. Guardate questo grafico e tenetelo bene a mente, perché oltre a essere la chiave di tutto, è l’unico che conta davvero: ci mostra plasticamente che, al netto delle vanterie fuori luogo del ministero delle Finanze, del Tesoro e dei vari governi succedutisi dopo il whatever it takes di Mario Draghi, l’unico acquirente del nostro debito è stata la Bce! Dunque, levate gli acquisti di Francoforte e cosa resterebbe? Solo venditori netti.
Ora, capite da soli che di fronte a una prospettiva simile ci vorrebbe una specie di Superman per prendere in mano le redini di un governo ed evitare che lo spread ci faccia ballare la Macarena, da qui all’autunno (viste le scadenze, fra clausole di salvaguardia, Def e manovra correttiva), ma quando l’idea è che alla guida del Paese ci siano, seppur per interposta e “terza” persona, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, contornati dalla loro corte dei miracoli di sovranisti ed euroscettici dalla sparata facile, anche un bambino intuisce che conviene raccomandarsi l’anima a Dio, più che sperare in una soluzione politica. E se, come vi dico da un po’, l’Italia fosse stata scelta come incidente in attesa di accadere, tanto per garantire alla Bce di poter continuare a mantenere in piedi il baraccone chiamato eurozona, almeno fino a quando le elezioni di mid-term non porteranno a una stabilizzazione degli equilibri a Washington, facilmente traducibile nell’uscita di scena di Donald Trump prima della fine del mandato?
Fateci caso: al netto dello schermo Bce, quando mai il mercato ti garantisce oltre due mesi di calma placida, nonostante le contorsioni politiche che il nostro Paese ha vissuto dal 5 marzo in poi? Inoltre, perché il partito più legato alle élites europee, ovvero il Pd, ha scelto immediatamente l’Aventino? Nonostante il tentativo posto in essere da Roberto Fico su mandato del Quirinale, l’uomo che davvero conta nel partito, ovvero Matteo Renzi, è andato in tv a chiudere la porta, prima ancora che avvenisse la consultazione fra Pd e M5s. Pensate davvero che la ragione sia perché sono usciti sconfitti dalle urne ed essendo gente con un alto senso delle istituzioni e dello Stato, trova giusto stare all’opposizione? E pensate che Forza Italia si sia chiamata fuori, solo perché Luigi Di Maio – non Winston Churchill – ha posto il veto su Silvio Berlusconi? Non vi viene il dubbio che la scelta degli azzurri abbia un’altra dimensione strategica, anche solo ricordando il nome e il ruolo dell’uomo che Berlusconi voleva a Palazzo Chigi come premier del centrodestra?
La scelta di Forza Italia è stata presa su indicazione di due persone che parlano poco, ma sanno molto, Gianni Letta e Fedele Confalonieri. Non penserete davvero che siano state le doti diplomatiche di Giovanni Toti – e ho detto Giovanni Toti, non Henry Kissinger – a convincere il Cavaliere a fare il famoso passo di lato, vero? Questo governo è come una Tesla: destinato a prendere fuoco. E chiunque lo guiderà, oltre ad avere tatuato sulla fronte un’invisibile data di scadenza a mo’ di yogurt, avrà come unico ruolo quello di temporaneo esecutore testamentario di quanto fatto finora, ovvero vivere in deficit, in punta di flessibilità targata Moscovici e al di sopra delle possibilità che i nostri conti pubblici ci permettono. Pensate davvero che Bruxelles, Francoforte e mercati possano garantire fiducia, ancorché temporanea, a un esecutivo che parte volendo attuare provvedimenti che richiedono un esborso per un centinaio di miliardi, pressoché senza coperture? Il che significa operare in deficit o, come sperano i leghisti per la flat tax, coprire il finanziamento con i maggiori introiti da consumi che l’abbassamento delle tasse dovrebbe (il condizionale è stra-obbligatorio) garantire e con un bel condono una tantum, in nome del governo di cambiamento: siamo seri e lasciamo certe panzane al Pirellone e dintorni.
Siamo alla vigilia di una nuova crisi sistemica, durissima: tanto che Mario Draghi ha parlato non più tardi della settimana scorsa della necessità di una rete di sicurezza europea per assorbire eventuali shock esterni. E noi cosa facciamo, mentre la Bce ci invita ad aprire i teloni di sicurezza? Camminiamo sulla grondaia a occhi bendati. Occorre prepararsi al peggio, perché purtroppo dal 2011 in poi il mondo ha mangiato sulle spalle delle generazioni future, caricandosi di debito e disintegrando le logiche elementari del mercato, quindi siamo entrati nel più classico dei territori inesplorati: oltretutto, con le Banche centrali che hanno sparato quasi tutte le pallottole a disposizione, quindi in regime di emergenza sostanziale. Davvero pensate che chi è chiamato a sovrintendere le operazioni di salvataggio dallo tsunami in arrivo permetterà che qualcuno sostituisca le scialuppe con dei materassini?
Lasciate che M5S e Lega si brucino con le loro mani, tanto nessuna delle loro folli idee vedrà mai la luce: preoccupiamoci, piuttosto, di tutto il resto. In primis, l’effetto Amato che il combinato di crisi in arrivo e terremoto politico in autunno potrebbe portare con sé: un bel prelievo forzoso o una euro-tassa per superare l’emergenza. Perché la realtà è di questa gravità, anche se non ve lo dicono. Siate pronti.
P.S.: La pagliacciata non è finita. Il destino del governo che sarà (speriamo di no) chiamato a prendere decisioni per 60 e rotti milioni di italiani è nelle mani di qualche migliaio di militanti M5S che dovranno votare il contratto in una consultazione sulla piattaforma Rousseau, per questo Luigi Di Maio ieri ha chiesto qualche altro giorno al presidente Sergio Mattarella. Insomma, dipende tutto da un referendum interno a un partito, gestito da un’azienda privata che gestisce big data. Sembra “1984” in versione demenziale, è l’Italia. Tranquilli, ora ci penserà Mr. Spread a mettere a posto le cose. Forse, già da oggi.