Non solo Qe. La settimana prossima la politica economica dell’Unione europea non avrà epicentro solo a Francoforte, dove il direttorio della Bce dovrà decidere se la ripresa dell’inflazione (il 2% in Germania) è tale da suggerire l’interruzione degli acquisti da parte della banca centrale. Facile che la maggioranza dei banchieri europei si allinei con Mario Draghi: guai a prendere una decisione avventata. Una stretta sui tassi potrebbe essere il cerino che dà il fuoco alla polveriera alla vigilia di una stagione elettorale incandescente, comunque imprevedibile. Basti ricordare che in Olanda, che il prossimo 13 marzo inaugurerà il ricorso alle urne, l’islamofobo Geert Wilders, che guida i sondaggi da dieci giorni, non compare in pubblico per la paura di attentati. Tante tensioni, destinate a salire a mano a mano che si avvicina il primo turno delle presidenziali francesi (il 20 aprile), rischiano di oscurare l’attività di Bruxelles, anche quando riguardano da vicino non solo l’economia, ma anche la nostra vita di tutti i giorni.
Sono molto vicine, in particolare, due decisioni dell’antitrust europeo capitanato da Margrethe Vestager, la radicale di sinistra danese che ha inflitto la mega-multa da 14 miliardi ad Apple. Stavolta, se possibile, le scelte della dama di ferro che si è opposta nel 2016 al salvataggio delle banche italiane da parte dello Stato promettono di essere davvero storiche. Frau Vestager, infatti, dovrà pronunciarsi sull’acquisizione della svizzera Syngenta, colosso dei semi e dei prodotti chimici per l’agricoltura, da parte di Chem China, ruspante colosso chimico cinese che, tra l’altro, figura quale primo azionista di Pirelli. Non è una decisione facile, per vari motivi.
Fino che punto, tanto per cominciare, Chem China va giudicata come una singola azienda oppure come una delle tante manifestazioni di una sola potenza chimica controllata dalla Stato cinese? In occasione dell’esame dell’investimento cinese nel nucleare britannico, Bruxelles decise di considerare l’industria nucleare cinese un tutt’uno. Oggi, anche alla luce del possibile matrimonio di Chem China con Sinochem, potrebbe fare lo stesso ragionamento, ponendo il veto al deal svizzero, che metterebbe nelle mani di Pechino la terza potenza mondiale dell’agribusiness.
Ma la questione è ancor più delicata. Tempo pochi giorni e Bruxelles dovrà dare o meno il via libera a un’altra fusione, ancor più importante, quella tra le americane Dow Chemical e DuPont, ovvero la potenza mondiale numero due nel campo dei semi per l’agricoltura. E non è finita qui: entro l’estate Margrethe Vestager dovrà pronunciarsi sulle nozze tra giganti tra la tedesca Bayer e Monsanto, l’azienda leader per i semi da cui dipende buona parte degli alimenti che arrivano sulle nostre tavole.
In cifre, le tre operazioni valgono più o meno 250 miliardi di dollari. In termini strategici il peso è ben superiore: i tre colossi transnazionali controllano assieme più o meno tutte le materie prime necessarie all’agricoltura, un’ipoteca eccezionale che non si è mai verificata nella storia dell’umanità sul fronte geopolitico: saranno i tre gruppi, ad esempio, a decidere cosa e a quali prezzi coltiveranno gli agricoltori indiani, spesso costretti a indebitarsi per acquistare le sementi necessarie. Nel tempo saranno senz’altro loro a stabilire quali varietà dovranno essere promosse e distribuite, e quali scomparire. Oltre, naturalmente, a gestire l’evoluzione tecnologica e il ricorso agli Ogm, ovvero i semi geneticamente modificati.
Difficile che le varie agenzie governative (anche le autorità Usa e quelle cinesi dovranno esprimere il proprio parere) blocchino le operazioni, anche se è prevedibile che vengano imposti paletti e condizioni per frenare l a tendenza monopolistica. Le operazioni, poi, nascono dalla necessità di tagliare i costi e creare una massa critica sufficiente per sopravvivere in un settore fortemente condizionato dalla diffidenza dell’opinione pubblica. È arduo prendere una posizione non ideologica in questo campo, ove spesso il “bio” è servito più come un’arma di marketing che non come tutela della salute o della civiltà del mangiare (e del bere). Limitiamoci a segnalare una partita che ci riguarda tutti, perché meno competitor significa meno prodotti in circolazione. Ovvero meno varietà. E più profitti. Ma non per gli agricoltori.