Perché Renzi dovrebbe fare meglio di Letta e di Monti? È questa la domanda che circolava nella Cancelleria di Berlino prima dell’incontro di ieri. E qual è la risposta dopo il meeting italo-tedesco? La risposta non c’è. Ma Angela Merkel non si è messa di punta, vuole aspettare e vedere che cosa combina il nuovo governo italiano. Ha dato, dunque, un incoraggiamento, piazzando subito i soliti paletti: rispettare il 3% e fare le riforme di struttura, a cominciare dalla riforma del lavoro che per i tedeschi è la vera cartina di tornasole. Perché tutti si rendono conto che l’Italia non sarà in grado di rimuovere i decennali macigni sulla via della crescita, ma rendere di nuovo flessibile il mercato del lavoro, senza farsi mettere i bastoni tra le ruote né dai sindacati, né dalla Confindustria, è una prova incoraggiante.
“Renzi mi ha illustrato un programma di riforme molto ambizioso – ha detto la Kanzlerin – È un messaggio positivo che accogliamo molto bene. Gli auguro molta fortuna e coraggio, tutto il bene: si tratta di un cambio strutturale, anche con riforme del mercato del lavoro che porteranno a uno sviluppo positivo”. Poi ha aggiunto che l’Italia rispetterà il Fiscal compact così com’è. Intanto il ministro delle finanze Schäuble diceva a Padoan che non ci sono margini, quindi “nessun rinvio”. Drei comma nul, tre virgola zero.
Presentato come l’anti-rigore dalla stampa tedesca conservatrice come die Welt, Renzi ha promesso di fare il bravo rifiutando di indossare il cappello d’asino, come ha detto egli stesso. E ha illustrato con la sua veloce parlantina tutte le promesse e gli impegni usciti dal consiglio dei ministri. Con qualcosa in più che certo solletica l’orgoglio tedesco: Renzi può anche scalpitare e scalciare perché il corsetto del 3% è troppo stretto (e ha ragione), ma accetta la leadership tedesca; la vuole curvare un po’ più a sinistra (titillando i socialdemocratici partner di governo), però non la rimette in discussione.
È proprio questo il segno dell’incontro di ieri a Berlino, lo ha capito in anticipo Mario Monti il quale ha preso la penna per ricordare puntigliosamente che lui si è sempre rivolto prima a Bruxelles e poi a Berlino e Parigi, perché crede nel primato del metodo comunitario rispetto a quello intergovernativo. Renzi non ha fatto caso a certe sottigliezze burocratiche, ha badato al sodo e la sostanza, nell’Europa di questi anni, è che il pallino ce l’hanno in mano i governi. E questo non gli dispiace affatto.
Abilissimo nel far politica e spesso alla velocità della luce, Renzi crede nel primato della politica ancora di più oggi che lo scenario si fa complesso, spesso pericoloso (come dimostra la crisi russo-ucraina). Del resto, è entrato a palazzo Chigi come capo del partito che ha la maggioranza relativa in Parlamento, non indicato dalla Bce, da Bruxelles o dal Quirinale. Ha preso il potere e ha dimostrato di usarlo con piglio giacobino. Questa è la sua vera differenza rispetto a Monti e a Letta. Sull’altro piatto della bilancia c’è l’inesperienza, certe volte anche una certa superficialità di approccio. Ma l’era dei tecnici è finita, politique d’abord.
È un argomento forte oggi sia nelle capitali europee sia nelle istituzioni dell’Unione che mai come adesso hanno mostrato una tanto profonda crisi di legittimazione. Le elezioni s’avvicinano, nessuno dei leader al governo vuole perderle perché, nonostante non abbiano un impatto politico diretto, sono pur sempre delle rilevanti consultazioni popolari. E, soprattutto, nessuno vuole trovarsi davanti alla vittoria del partito trasversale degli anti-euro. Se così fosse, infatti, le conseguenze sarebbero per forza di cose pesanti non solo a Bruxelles, ma anche nei singoli paesi. È questo il vero ragionamento che Renzi ha fatto sia a Hollande, sia alla Merkel, al di là delle cifre e delle tecnicalità lasciate ai ministri. Ha detto in sostanza: “Volete davvero che in Italia vinca Beppe Grillo? Se è così allora picchiate pure, ma sarà un bagno di sangue. Altrimenti, datemi tempo e lasciatemi lavorare”. E il tempo glielo hanno concesso. Bon gré mal gré.
La Germania, uscita vincitrice dalla recessione e dalla “guerra dello spread”, adesso ha tutto l’interesse a lasciare che cento fiori fioriscano (per citare un famoso motto maoista). Non significa certo mollare la presa, né, tanto meno, una svolta teorica. Ma vuol dire che oggi ha più spazio di manovra, sapendo che le è possibile sempre tirare il freno, nessuno glielo può impedire. Ha salvato la Spagna alle sue condizioni. Ha messo in riga la Grecia. Ha imposto a Cipro una sorta di area monetaria di serie B (il controllo dei capitali doveva essere temporaneo invece va avanti da un anno): l’isola è stata usata come cavia per sperimentare salvataggi bancari pagati anche dai risparmiatori e un purgatorio monetario dove mettere i reprobi in attesa di scontare la loro pena. Ma Berlino non può permettersi che l’Italia precipiti in una spirale perversa, perché davvero sarebbe mettere fine all’Unione europea nella versione germanica e, probabilmente, in qualsiasi altra versione.
Ciò offre a Renzi un grande vantaggio rispetto ai suoi predecessori i quali hanno già fatto il “lavoro sporco” (soprattutto Monti) e gli hanno aperto la strada. Se la ripresa comincia davvero, se i 10 miliardi di risparmi fiscali per i salari medio-bassi si traducono in 8-9 miliardi di consumi essenziali, allora si potrà avviare una fase nuova. Gli ottimisti dicono che, mettendo insieme il risultato economico e la legge elettorale, Renzi potrà restare a lungo al governo. Chissà. L’Italia non ha mai funzionato così. I tedeschi ricordano che la Merkel ha trattato con Berlusconi, Prodi, Monti, Letta e adesso Renzi; dunque, preferiscono essere prudenti. Eppure Frau Angela è rimasta “molto colpita” e s’è sbilanciata: “C’è un cambiamento strutturale”, ha detto. Quel toscanaccio dalla lingua sciolta, che talvolta fa il monello alla Benigni, ha conquistato anche lei?