Il senso di giustizia è uno dei propellenti più potenti depositati nel cuore di ogni uomo. Muove tante cose, senza neppure fare capolino, e quando esplode può creare rivoluzioni e cambiamenti drammatici nella storia. E’ un’esigenza, quella della giustizia, che si apre a 360 gradi soprattutto nell’adolescenza, come altre (quella dell’amore ad esempio), e che ognuno può comprimere poco o tanto sotto il cumulo di vari interessi e comodi. Giuliano Bignasca era uno che non l’ha mai messa a tacere questa esigenza dentro di sé (forse anche perché ha conservato per tutta la vita altre movenze adolescenziali: alludo alla sua ben nota baldanza goliardica che l’ha portato a volte a sbeffeggiare, anche pubblicamente, alcune persone che si sono sentite giustamente ferite nella loro dignità).
In particolare, la giustizia ha direttamente a che fare con la politica. E qui le cose si complicano un po’. Perché la politica non può fare a meno di questo propellente ma, al tempo stesso, non può soddisfare fino in fondo l’esigenza di giustizia. Se cerca di farlo, il passo verso le utopie ideologiche è breve, e può sfociare nelle dittature. La politica deve riconoscere i suoi limiti e lasciare spazio, anzi allargarlo, alla società e alle persone che la costruiscono in tanti modi e la cui crescita è il vero «bene comune». Bisogna riconoscere che Bignasca non è mai andato nella direzione dell’ideologia, perché i limiti della politica li conosceva. Sapeva che nella sua espressione pratica la politica è anche arte del compromesso; e che Borradori (maestro nell’arte del compromesso) sia stato «il politico» per definizione della Lega la dice lunga su questa consapevolezza di Bignasca.
Perché la sua creatura politica, la Lega dei Ticinesi, ha conosciuto in questi vent’anni il successo che ha conosciuto, diventando il primo partito del Ticino? E’ difficile rispondere. Ma credo che Bignasca sia «salito» in politica in uno di quei momenti storici in cui una proposta dirompente come la sua poteva trovare il terreno più fertile. I primi anni 90 furono gli anni della caduta dei muri e delle ideologie nefaste che li avevano costruiti imprigionandovi la libertà di milioni di uomini. Tutto si «scongelò», soprattutto in Europa, dove la crisi della politica, già in corso da tempo e con radici in un declino di civiltà assai più profondo, cominciò a palesarsi chiaramente in quegli anni. E certamente, con alti e bassi, non è ancora finita (basti pensare a quello che vediamo succedere, dal nostro balconcino tutto sommato privilegiato, in un Paese a noi vicino in tutti i sensi come l’Italia). Fatto sta che Bignasca seppe gridare – come ho più volte ricordato – che «il re era nudo».
In altre parole, che c’era una cappa di retorica e di vincoli burocratici che copriva i minuetti delle forze politiche le quali, in realtà, brandivano a parole grandi ideali, magari contrapposti, per usare il consenso popolare a scopi non dichiarati di spartizione, tra loro, di puro potere economico e sociale. Far leva sul senso elementare di giustizia, in quel momento – ma ancora oggi – voleva dire intercettare un’esigenza comune di respiro, di liberazione dal soffocamento dell’ipocrisia sociale e politica.
Bignasca, la condizione degli anziani soli e in difficoltà, dei meno abbienti oppressi dai premi della mutua, dei semplici cittadini di ogni ceto e cultura irritati dalla selva di divieti inventati dalle burocrazie li sentiva da sempre sulla propria pelle (anche se lui i soldi li aveva: e li ha poi giocati in buona parte nella battaglia mediatica e politica). Con l’esplosione di gesti come la «Carovana della libertà» e le prime battaglie condotte dal «Mattino» Bignasca esprimeva una ribellione e una speranza che risvegliò e diede voce a quella di tanta «gente» che poi l’avrebbe seguito nell’avventura politica votando Lega (per anni, ricordiamolo, semi-clandestinamente, sotto minaccia di ritorsioni sociali molto concrete). Aver incanalato questa ribellione in un partito e in forme di politica democratica è stato un merito del Nano. Anche se la deriva del semplicismo e quindi della demagogia fu da subito in agguato e, spesso, fu imboccata dal suo movimento. Com’è inevitabile per chi vuole il «tutto e subito» (di sessantottesca memoria) che l’esigenza di giustizia, ineducata, porta a voler stringere impetuosamente tra le mani.
Se devo però, in conclusione, riconoscere a Bignasca un merito tangibile e indiscutibile, è quello di aver permesso al Ticino di costruire, dopo quasi duecento anni di vani tentativi, una propria università. Senza di lui, che la propose e ne sostenne fino in fondo la gestazione (finendo poi, a cose fatte, col criticarla…) vi assicuro che l’Usi non esisterebbe. E basta, direi, per dedicargli un busto all’entrata del nostro ateneo.