Ministro Sacconi, perché un Libro verde?
Come accade in Europa, “libro verde” è il documento con cui si vuole aprire una consultazione con tutti gli attori economici e sociali e tutti i cittadini. È quello che vogliamo fare anche noi. Ne va del nostro futuro modello sociale: siamo convinti che occorre cambiare radicalmente quello che abbiamo, ma per farlo occorre avviare un percorso graduale, perché almeno i valori e la visione relativi a questo nuovo modello siano per lo più condivisi. È doveroso sperare che non il programma concreto per arrivarvi, ma il punto d’arrivo sia condiviso anche dall’opposizione. Il punto d’arrivo di questa consultazione sarà quello sì un libro bianco, cioè un libro compiuto, che recepisce le istanze fondamentali, a valle del quale produrremo un programma di governo. Il tutto entro l’anno.
Qual è il nuovo welfare di cui l’Italia ha bisogno?
Dobbiamo abbandonare un modello sociale di tipo risarcitorio, e quindi segmentato in relazione ai diversi bisogni della persona, per andare verso un modello che interviene sull’integralità della persona, rafforzandone l’autosufficienza. È un welfare che si realizza non solo attraverso le funzioni pubbliche, ma che interviene sui servizi funzionali a irrobustire l’antropologia stessa della persona, la sua autonomia e la sua responsabilità. Invoca, in modo sussidiario, la famiglia, che è la prima proiezione relazionale della persona, e il complesso dei corpi intermedi. Vogliamo fare della persona sia la destinataria delle politiche sociali, sia il soggetto destinato responsabilmente a concorrervi.
Vista la situazione storica del nostro welfare, qual è il punto più critico su cui intervenire?
Credo che più che su un punto specifico, occorra lavorare su un’impostazione complessiva. Occorre prevenire il formarsi del bisogno. Pensiamo soltanto, nelle politiche della salute, all’importanza di stili di vita idonei a prevenire la malattia, o nel lavoro a quanto è importante la formazione per aggiornare continuamente le competenze in modo che la persona sia occupabile. È un vero e proprio cambiamento di sistema, da realizzare con gradualità. Certo la funzione risarcitoria tradizionale del welfare non viene meno; deve però essere ridimensionata, lavorando sulle condizioni che possono ridurre il bisogno. Il welfare deve poter essere non solo un modello universale, ma anche un modello personalizzato e selettivo. Deve puntare a rendere autosufficienti i più deboli.
Quando il governo intende introdurre provvedimenti come quelli annunciati in campagna elettorale, per esempio il quoziente familiare?
Non dimentichiamo che questo progetto di ridisegno del modello sociale si definisce in un momento nel quale nel mondo prevale l’incertezza e l’instabilità. Questo condiziona fortemente la spesa pubblica. In questo momento, di fronte a tali incertezze, dobbiamo tenere alta la guardia rispetto al possibile peggio che potrebbe intervenire. Martedì, incontrando le parti sociali, intendiamo condividere il percorso che può consentire all’Italia di ripartire. Il futuro può essere meno incerto se lo condividiamo. Sia come capacità di costruire ricchezza, sia se la condividiamo equamente man mano che si produrrà. Il destinatario di questa equa distribuzione della ricchezza sarà il lavoratore, secondo il modello del salario di produttività detassato, e sarà il pensionato, che indirettamente attraverso il lavoro potrà usufruire di maggiori tutele. Nel caso della famiglia, più che di quoziente familiare, come primo traguardo parlerei di un maggiore peso di deduzioni fiscali tali da premiare la composizione del nucleo familiare.
Lei ha parlato, anche di recente, di partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Possiamo permetterci di guardare ad un modello del genere o abbiamo ancora un tasso di conflittualità che rende rischiosa una riforma di questo tipo?
No, credo che sia un tema all’ordine del giorno, perché abbiamo bisogno non solo di superare il conflitto tra capitale e lavoro, ma anche l’apatia tra capitale e lavoro: quel rapporto freddo che non porta produttività perché non condivide gli obiettivi. Occorre creare una nuova complicità positiva tra imprese e lavoratori, che si determina innanzitutto, credo, con la garanzia che lo sforzo per produrre utili viene compensato con la partecipazione agli utili stessi.
Qual è dunque il suo auspicio, alla vigilia del confronto con le parti sociali?
Spero che il libro verde dia un contributo alla coesione nazionale. Il modello di welfare, almeno la sua visione, i valori materiali e i principi cui si ispira, fanno parte della costituzione materiale di un paese e della sua comunità. Spero che possa condividere a rafforzare e incrementare il capitale sociale del paese, rafforzando i valori condivisi al di là degli schieramenti. E spero che aiuti a superare il lungo ‘68 italiano. Spesso ci interroghiamo su quale sia l’origine degli elementi di declino che avvertiamo nella nostra società. E non mi riferisco solo al rapporto capitale e lavoro, che è stato condizionato pesantemente dalle ideologie classiste, ma faccio un riferimento più generale ai germi di irresponsabilità e di nichilismo oggi così diffusi, che danno l’idea che nella nostra società abbiamo perso il senso del lavoro, come più generale espressione di una perdita del senso della vita. E l’aspetto più evidente del declino italiano è il declino demografico, con la conseguente perdita della solidarietà intergenerazionale… Per questo abbiamo intitolato così il Libro verde: “La vita buona nella società attiva”. La vita buona è solo nella società attiva. Che non è solo la società della piena occupazione, ma anche la società di una natalità più alta.
Nel nostro Paese la donna trova non poche difficoltà a conciliare lavoro e famiglia. Che ne pensa?
La donna in modo più evidente, nella sua esclusione dal mercato del lavoro, paga la difficoltà dell’Italia a transitare verso un’economia dei servizi e della conoscenza. Lo vediamo nel fatto che la nostra produzione industriale è ancora rigidamente organizzata sui modelli della produzione manifatturiera seriale, e che l’orario di lavoro è ancora l’orario di lavoro standard. La nostra rigidità nella diffusione dei servizi è anche la rigidità nell’orario di lavoro di un asilo nido o di una scuola materna. Tutto ciò indica un’arretratezza che la donna è destinata a pagare, mentre sarebbe premiata da una società più orientata ai servizi e alla conoscenza.