Come nella migliore tradizione statunitense, alla fine si è giunti al compromesso: per altri due mesi si rimanda qualsiasi decisione sul cosiddetto “Fiscal Cliff” e siamo tutti contenti. Borse euforiche, nemmeno i Maya fossero riusciti a far sparire tutti i debiti pubblici del mondo, e sentimento generale che sembra volgere al sereno per inizio anno: all’ora di pranzo Milano saliva di quasi il 4%, trainata dal comparto bancario e Madrid del 3%. Ma siamo sicuri che questo ottimismo sia giustificato?
Mah, a mio avviso arrivano solo cattive nuove dal Paese che si permette di dare giudizi sulla stabilità italiana, temendo il contagio. La Spagna, infatti, è sempre più a pezzi e sta per affrontare il picco più alto della bolla immobiliare creatasi in anni di credito allegro e di conseguente cementificazione selvaggia. A dirlo non è il sottoscritto ma il leader iberico del settore RR de Acuna&Asociados, a detta del quale i prezzi delle case a Madrid, Barcellona e nelle altre principali città del Paese scenderanno di un altro 30% da qui al 2018, ma la correzione al ribasso potrà essere anche peggiore nelle cinture urbane di alcune regioni. Si parla di un 50% e di un calo perdurante per altri 10-15 anni nelle aree dove la bolla speculativa è stata più spregiudicata, un dato che porterà il livello della perdita al -75% rispetto al picco.
«Il mercato è devastato – ha sentenziato il vice-presidente del gruppo, Fernando Rodriguez de Acuna – e calcoliamo che ci siano almeno 2 milioni di abitazioni che stanno aspettando di essere vendute ma che non trovano un compratore. Negli ultimi cinque anni non abbiamo compiuto alcun progresso nella riduzione o liquidazione degli stocks. Sul mercato ci sono 800mila case usate e i costruttori siedono su qualcosa come ulteriori 700mila unità già completate. Altre 300mila sono poi state pignorate, mentre 150mila sono attualmente sotto procedura di pignoramento e altre 250mila sono attualmente in costruzione. E’ folle».
Già, folle visto che parliamo di una nazione di 48 milioni di abitanti con esigenze abitative annuali pari a 200mila unità da qui al 2020 e poi pari a 50mila l’anno dal 2020 al 2030 (guarda il grafico a fondo pagina), oltretutto a fronte di una già innescata dinamica di abbandono del Paese da parte di lavoratori disoccupati e alle prese con i prodromi di una crisi demografica in formazione.
Il governo, quello che attacca il ritorno in campo di Silvio Berlusconi, parla ufficialmente di «punto più basso della crisi già toccato e sostanziatosi in un -30%», dato ridicolo rispetto a quello avanzato da chi lavora nel settore, salvo poi dover ammettere che non ci sarà alcuna ripresa economica prima almeno del 2014. Il Fondo monetario internazionale predice una contrazione dell’1,3% l’anno prossimo, mentre Citigroup e Nomura addirittura prevedono una prosecuzione della fase depressiva per tutto il 2014. Il tutto con un tasso di disoccupazione già al 26,2% e in continua crescita.
Ma se per quanto riguarda il mercato del lavoro si può ricorrere alla pratica della svalutazione interna, il fatto di aver perso le leve di sovranità monetaria preclude a Madrid la possibilità di creare le condizioni per un “abbassamento morbido” dei prezzi immobiliari nominali. E questa situazione va a unirsi a quella del sistema bancario, essendo real estate e credito due settori strettamente correlati in Spagna e destinati a un abbraccio mortale nel quale l’uno porta sul fondo l’altro, nonostante la “bad bank” governativa in cui sono stati riversati miliardi e miliardi di bad loans ma solo dai tre giganti del credito del Paese (e sapete che la crisi spagnola è stata resa possibile dalle piccole banche, soprattutto le casse di risparmio regionali).
Come vi ho già spiegato la scorsa settimana, la già nazionalizzata Bankia si ritrova a non valere più nulla, avendo un valore negativo di -4,2 miliardi di euro e conoscendo crolli del titoli in Borsa da doppia cifra. Quindi, disastri su tre fronti: mercato immobiliare, del credito e azionario, visto che se i 350mila piccoli azionisti di Bankia – la quale ha bisogno di altri 13,5 miliardi di soldi dei contribuenti, portando il totale a 18 miliardi – hanno ormai perso tutto il loro investimento, quelli del Banco di Valencia si ritrovano con un titolo che vale 0,09 euro per azione e dopo il salvataggio da parte del Frob e la vendita a CaxiaBank non avranno più nemmeno quei pochi centesimi. Calcoli avanzati dalla stampa iberica dicono che il costo totale dei salvataggi bancari porterà il budget di deficit al 9% del Pil nel 2012, ben lontano dal target Ue del 4,5%, oltretutto già rivisto al rialzo durante l’anno al 6,3%.
Calcolando che il picco di quel dato si è registrato nel 2009, quando raggiunse l’11,2% del Pil, di miglioramenti in tre anni ne sono stati fatti pochi, al netto delle iniezioni di denaro Ue. E in una situazione simile è chiaro che si lotti come si può per sopravvivere, lanciando però shock sul mercato. Santander, pur di disfarsi di un complesso condominiale a Toledo, l’ha venduto con uno sconto del 60%, innescando una richiesta al ribasso totalmente speculativa che subito dopo ha visto Banco Sabadel costretto a vendere con uno sconto ancora più alto, del 70%. Un’altra grande banca, terrorizzata, ha sospeso l’operatività della sua divisione immobiliare a Toledo per due settimane nell’attesa che il mercato si riprendesse dallo shock ribassista.
Sempre Rodriguez de Acunia pensa che «i prezzi andranno in ripresa entro cinque, otto anni nelle tradizionali aree costiere delle Canarie o di Malaga, ma per ora le banche provano a resistere dall’offrire grossi sconti e i telefoni restano muti. A Marbella i prezzi sono già scesi del 50% e continuano a scendere. Addirittura, in aree di ultra-costruzione come Castellon, vicino Valencia, le banche hanno totalmente chiuso i rubinetti del credito, quindi moltissime case non saranno mai vendute e saranno, molto probabilmente, abbattute».
Cos’abbia avuto ieri da festeggiare l’indice Ibex 35, scusate ma io proprio non lo capisco. Qualcuno mi può aiutare? Astenersi chi ritiene che il “Fiscal Cliff” sia stato risolutivo.
P.S. In compenso, cari lettori, il 2 di gennaio Saxo Bank aveva già azzeccato una delle sue dieci “previsioni oltraggiose”. Il premier giapponese, Shenzo Abe, ha reso noto che il governo stanzierà un triliardo di yen, circa 8 miliardi di euro, per acquistare impianti dedicati al settore elettronico e all’industria della fibra di carbonio, nei fatti la nazionalizzazione mascherata – in stile industria automobilistica Usa – di cui parlava Saxo Bank per tamponare la concorrenza ormai spietata della Sud Corea.
Ora scatta la possibile seconda scommessa sul Giappone, ovvero quella relativa allo yen. Abe ha posto un tasso di cambio implicito di 90 yen per un dollaro e ha imposto alla Banca centrale di puntare alla svalutazione della moneta attraverso massicci acquisti di bonds esteri, sull’esempio della Banca centrale svizzera. Un azzardo, visto che puntare sulla reflazione significa scherzare con il fuoco, potendo innescare una decimazione del portafoglio obbligazionario degli istituti nipponici e innescare una crisi bancaria. Le banche giapponesi detengono, infatti, bonds governativi per una percentuale pari al 900% del loro capitale Tier 1: insomma, occhio a quanto potrà accadere a Tokyo.