L’Italia non ha ancora riconquistato la fiducia del mercato al riguardo della sua capacità di ripagare e sostenere l’enorme debito pubblico – ne è prova l’alto rendimento richiesto per comprare i nostri titoli -, ma ha fatto il primo passo per riuscirci dimostrando, via tendenza al pareggio di bilancio, che dal 2013 non aumenterà l’indebitamento. Ma, dopo la prova del rigore, il mercato si aspetta quella della crescita. Il rigore senza crescita, infatti, non permette, per riduzione del gettito fiscale, di mantenere il pareggio di bilancio.
Ora il governo Monti ha la missione di convincere al più presto il mercato che l’Italia potrà spuntare una crescita del Pil futura capace di sostenere il debito. E questa missione, la cosiddetta fase due, richiede non tanto limature al modello, ma un suo cambiamento strutturale, perché è la sua configurazione che deprime la crescita. Bisogna capire questo punto: o l’Italia cambia modello, e convince in tre mesi il mercato che ci riuscirà, o dovrà dichiarare insolvenza anche applicando un estremo rigore. Ciò implica la ricerca di nuove garanzie economiche che sostituiscano quelle vecchie con effetto depressivo.
Per crescere sono necessarie: detassazione, flessibilità del mercato del lavoro; liberalizzazioni; migliore produttività della spesa pubblica via impieghi più selettivi. Ridurre le tasse sarebbe l’azione più stimolativa. Ma il requisito del pareggio di bilancio lo renderà possibile solo dopo la ripresa della crescita. La seconda azione più stimolativa è quella del cambiamento delle regole del lavoro. Se le aziende avessero la possibilità di licenziare certamente assumerebbero più personale e farebbero più investimenti. Ma i sindacati restano ancorati alla teoria irrealistica di difesa del posto lavoro invece di quella realistica di tutela del reddito del lavoratore. Uno è precario quando è in una situazione di incertezza prospettica. Ma uno può essere licenziato e riassunto più volte senza diventare precario. Quando disoccupato passerà sotto la tutele pubblica: salario dignitoso (a termine), eventuale riqualificazione e servizi per trovargli una nuova occupazione sul mercato il prima possibile.
Tale schema è stato applicato, per esempio, in Germania dal governo Schroeder (socialdemocratico) nei primi anni del 2000 e ha ridato competitività all’industria tedesca. Non si capisce perché in Italia non potremmo fare lo stesso, anche meglio. Il modo politico per farlo è presentare in dettaglio la nuova “garanzia del lavoratore” che sostituisca quella di difesa del posto di lavoro fisso (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, anni ‘70), fare una comparazione di utilità per mostrare i vantaggi dell’innovazione e che il cambiamento di modello economico non implica una riduzione delle garanzie, ma solo la loro modernizzazione. I lavoratori avrebbero più opportunità di occupazione e di premio di produzione in cambio dell’accettazione di poter essere licenziati, ma senza perdere la garanzia di un salario minimo di transizione se accadesse.
Con questa riforma, oltre alle liberalizzazioni, l’Italia potrebbe puntare a una crescita media non inferiore al 2% del Pil e, in pareggio di bilancio, ottenere in 15 anni la riduzione del debito al 60% del Pil, inducendo il mercato a scontare ora la previsione positiva. I sindacati ostacolano questa prospettiva e vanno criticati. Ma il governo deve rendere più chiaro che la riforma del lavoro è un’evoluzione delle garanzie, non una loro eliminazione. Se riusciremo a capirci meglio tutti su questo punto l’Italia non solo si salverà, ma presto volerà.