Nei giorni scorsi abbiamo assistito a un magnifico doppio-renzismo in salsa europea. A Parigi, al “compagno” Hollande il presidente del consiglio Matteo Renzi ha detto che i problemi nascono da quegli ottusi tecnocrati europei che sono responsabili per le azioni mancate o sbagliate dell’Unione europea. A Berlino, invece, ha detto alla cancelliera tedesca che “l’Italia rispetterà le regole che ha contribuito a formare” e che “non chiede di cambiarle, ma di negoziare la loro giusta applicazione”.
Le dolci note musicali per le orecchie teutoniche sono state chiarite in un tandem bipartisan: Renato Brunetta (FI) ha dichiarato su queste pagine che il suo partito è pronto a sostenere il governo perché «costringa l’Ue ad accettare le nostre proposte di anticipare in via sperimentale da subito in Italia l’applicazione degli “accordi contrattuali” che da ottobre saranno applicati a tutti i paesi membri»; gli fa eco Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del consiglio, che a Il Corriere della Sera ha dichiarato: «”Noi non vogliamo revisioni unilaterali di trattati o di accordi, né vogliamo mettere in discussione che il rientro del debito sia una traiettoria necessaria e virtuosa. Però allo stesso tempo è ovvio che, come è avvenuto per il rientro dal debito di Irlanda, Spagna, Grecia, quando sono stati fatti loro prestiti, esistono procedure di rientro più moderate a seconda dello stato dell’economia dei Paesi. Quindi non dobbiamo pensare che le regole del Fiscal compact siano una gabbia non più negoziabile, l’importante è che tutto avvenga in un’ottica di comune accordo. E comunque la discussione è un po’ prematura: ne parleremo alla fine del 2015 per il 2016”. Vi attiverete anche per sottoscrivere accordi contrattuali?“Sì ma sono un’altra cosa. Si tratta di poter ottenere in cambio di riforme spazi per gli investimenti. Penso all’uso degli eurobond, alla clausola per gli investimenti che consente di mettere i cofinanziamenti europei fuori del patto di stabilità. Cose su cui lavorare già adesso molto più che sul Fiscal compact”».
Musica celestiale per Angela Merkel che profonde apprezzamenti e sorrisi al giovane Renzi. Invece, come ha scritto Barbara Spinelli “è inadeguato presentarsi a Berlino come buon allievo, quando le mutazioni hanno da essere radicali. Il rischio è un inganno dei cittadini: dilaterà le loro malavoglie, i loro disorientamenti e repulsioni”.
Cerchiamo di capire adesso di che cosa hanno parlato i leader italiani e tedeschi e che significa per l’Italia e gli italiani.
Gli “accordi contrattuali per le riforme strutturali per la competitività e la crescita” (contractual arrangements) sono strumenti giuridici cogenti che i singoli stati membri dell’Ue firmeranno con la Commissione europea nel quadro del rafforzamento dell’Unione economica e monetaria. Proposti dalla Germania, il piano per questi accordi è stato elaborato dalla Commissione europea che lo ha inviato ai 28 governi del Consiglio europeo lo scorso dicembre 2013. Ma il Consiglio ha rinviato la decisione dapprima a giugno e poi a ottobre 2014. Il piano in attesa di approvazione riguarda un vincolo di condizionalità tra un calendario preciso di riforme strutturali da realizzare a livello nazionale e la possibilità di ricevere “incentivi” attraverso fondi europei di solidarietà.
È su quest’ultimo punto che, anche grazie a varie eccezioni sollevate dalla Francia, il Consiglio ha avuto delle difficoltà per decidere se i fondi debbano essere erogati dalla Banca europea di sviluppo (Bei) oppure dal bilancio delle istituzioni, oppure da un fondo ad hoc. Il 20 dicembre 2013, Herman Van Rompuy, presidente permanente del Consiglio europeo, ha dichiarato che «due tipi di “accordi”, quelli per le riforme e quelli per la solidarietà, devono essere simultaneamente applicati, e quindi ci vuole più tempo per la loro preparazione».
Il piano prevede che la Commissione europea invii in ciascun Paese delle missioni di sorveglianza e monitoraggio per valutare se le proposte di riforma avanzate dal governo siano adeguate e sostenibili per applicare le misure volte alla riduzione delle “debolezze economiche” specifiche, siano durevoli nel tempo e quale sia il loro reale impatto sulla sostenibilità fiscale e sociale. Se il governo e la Commissione non trovassero un accordo, oppure se il Consiglio europeo non accettasse la proposta della Commissione, allora non ci sarebbero “accordi contrattuali” e quindi non si eroga il sostegno finanziario di solidarietà. Questa è la dura regola della condizionalità.
Nel dicembre 2013, Mario Monti scriveva sul Financial Times che «perché vi siano stabili e sostenibili condizioni di bilancio, i paesi del Sud devono fare un profondo aggiustamento culturale. Devono riconoscere che la disciplina di bilancio paga». In altre parole quel che Renzi ha detto con “non lo facciamo perché l’Europa ce lo chiede, ma per i nostri figli”.
Sempre Renzi ha detto alla Merkel che «l’Italia non chiede di cambiare il Trattato di Maastricht e i suoi obiettivi». Ma Mario Monti già avvertiva che «il Trattato non specificava in modo chiaro le tipologie di “investimento pubblico”, produttivo o pseudo-produttivo». Infatti, continua Monti, servono strumenti come gli “accordi contrattuali” che entrano nel merito di ogni specifica misura di investimento pubblico. Lo scopo è di “avvicinare” le politiche di spesa pubblica del Sud a quelle del centro e nord Europa. Secondo questo standard, si uniranno alle misure di disciplina fiscale quelle di riforma strutturale delle società, dei servizi, delle amministrazioni. Solo grazie a questi accordi i governi potranno prendere quelle misure, altrimenti osteggiate perché impopolari, che fanno cadere le rendite di posizione, le clientele e i gruppi di interesse costituiti attorno a filiere politico-economiche, di casta sociale o professionale. Insomma, fa capire Monti, solo così si potrà avere una vera coesione europea, precondizione per l’esistenza stessa dell’Unione.
Il governo di Enrico Letta puntava a ottenere che gli “accordi contrattuali” fossero almeno volontari. Renzi li ha presentati volontariamente, è vero, ma solo all’apparenza. È nel reale negoziato che si capirà quanto siano volontari e quanto condizionati. Le critiche a questo “accordi contrattuali” erano già forti e chiare nel dicembre 2013: Guy Verhofstadt, ex primo ministro del Belgio e attuale candidato liberale a presidente della Commissione europea, ha definito gli accordi contrattuali voluti da Merkel «la fine dell’Unione Europea» e una «forma di intrusione» nella sovranità nazionale. Sulla stessa linea si sono espressi il leader degli eurosocialisti, l’austriaco Hannes Swoboda, e quella dei Verdi, la tedesca Rebecca Harms. «Contratti oggi e la solidarietà? Si vedrà domani», ha polemizzato l’eurodeputato Roberto Gualtieri del Pd.
Il vero problema che disturba il sonno di Matteo Renzi è che mentre finora si era potuto contare sul danaro a basso costo immesso nel sistema bancario dalla Bce, dopo le recenti sentenze della Corte costituzionale tedesca, ultima quella che mette in un limbo il “bazooka” di Draghi, cioè la possibilità di comprare “illimitatamente” titoli di debito pubblico sul mercato secondario (programma Omt), i margini di flessibilità dei governi con grande debito pubblico si sono ridotti al lumicino. È vero che l’Italia dal maggio 2013 è uscita dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo, ma è anche vero che finora delle riforme strutturali si sono sentiti solo alcuni titoli e qualche annuncio.
Quel che preoccupa è che Renzi, in un assolo smagliante di seduzione mediatica, ha ingannato gli italiani (i tedeschi hanno detto “prima vedere soldi, poi dare cammello”) facendo credere che il suo governo è spalleggiato dalla Germania. Renzi ha, invece, adottato pienamente la dottrina tedesca dell’ordoliberalismo, nata nella Scuola di Friburgo tra le due guerre, che fissa quali debbano essere le priorità, perché i mercati operino senza ostacoli: prima va rassettata la “casa nazionale”, e solo dopo verranno la cooperazione, la solidarietà, e comuni regole di uguaglianza sociale. Quindi, in una massima mistificazione, si dice Europa ma si legge “governi” riuniti nel Consiglio, che adottano qualsiasi decisione poi data in gestione alla burocrazia dell’Unione europea (Barbara Spinelli).
Finora i governi hanno fatto ben peggio di quanto il funzionalismo di Delors riuscì a fare nel suo decennio di regno europeista (1985-1995). Se a quel tempo il sostegno popolare per l’Europa era diffuso ed entusiasta, oggi è drammaticamente precipitato a meno del 30% dei cittadini europei. L’ingiustizia sociale asimmetrica, gli errori gravi di valutazione e gestione delle crisi politiche dei paesi del vicinato (Ucraina, Siria, Egitto, Palestina, Turchia, ecc.), l’umiliazione della sovranità democratica “congelata” per dare 4 paesi membri (Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro) in gestione all’ectoplasmatica Troika (Fmi, Bce, Commissione), hanno creato le basi per una rivolta politica anti-europea di vasta scala.
Sebbene Renzi e il suo governo abbiano scelto questa nefasta strada, non è chiaro come risolveranno anche la mancanza di danaro nelle casse pubbliche che già dal 2014 dovranno accantonare circa 50 miliardi di euro all’anno, per i prossimi 20 anni, per ridurre il debito pubblico di 1/20 all’anno e riportarlo al 60% del Pil.
Per queste ragioni temiamo che dopo gli annunci mediatici renziani si arriverà a negoziati molto duri e dolorosi che imporranno svendite di asset e patrimonio pubblico italiano e a tagli alla spesa ben più determinati di quelli tratteggiati dall’esperto Cottarelli. Una vera devastazione! Necessaria? Insomma, se davvero Renzi vorrà anticipare gli accordi contrattuali, l’Italia non “cambierà verso”, ma sarà messa sottosopra, sarà rivoltata come un calzino bucato. Auguri di un amarissimo futuro molto prossimo!